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Dirigenza pubblica tra fatica di amministrare e burocrazia difensiva

 
Stefano Glinianski

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Stefano Glinianski

Dirigenza pubblica tra fatica di amministrare e burocrazia difensiva

Paura della firma. Burocrazia difensiva. Revisione dei controlli. Fatica di amministrare. Riforma del delitto di abuso d’ufficio e ridimensionamento dei poteri di intervento della Corte dei conti

Martedì 27 Agosto 2024, 13:16

Paura della firma. Burocrazia difensiva. Revisione dei controlli. Fatica di amministrare. Riforma del delitto di abuso d’ufficio e ridimensionamento dei poteri di intervento della Corte dei conti.

Da tempo il dibattito politico, attualizzato da una recente pronuncia della Corte costituzionale con la sentenza numero 132 del 16 luglio, ruota intorno a questi temi nel tentativo di trovare soluzioni legislative semplificanti le regole dell’agire amministrativo che consentano ai dirigenti di conseguire gli obiettivi loro assegnati senza il timore di incorrere in processi contabili e/o penali.

Nel solco prospettico così delineato, tuttavia, alcune considerazioni si impongono, per non rischiare di offrire di un complesso problema una visione parziale e non contemplante le molte sfaccettature che la «paura della firma», quale effetto di quella «fatica di amministrare e del decidere» evocata dal giudice costituzionale, presenta.

Bisogna, infatti, riconoscere che non sempre la responsabilità delle inefficienze della pubblica amministrazione sono esclusiva conseguenza di una magistratura invasiva e/o di forme di controllo inutilmente penetranti. Nel presupposto che tutto è perfettibile e che talvolta rimodulazioni di sistema sono auspicabili, purché concertate tra le istituzioni interessate, una volontà di riforma che si limiti al mero ridimensionamento dei controlli amministrativi e ad un costante j’ accuse alla responsabilità erariale, senza una contestuale riflessione su altre dinamiche riguardanti la pubblica funzione, appare onestamente riduttiva.

Una valutazione è da farsi anche sulla non sempre eccellente qualità della legislazione e sulle numerose fonti di rango secondario che, operando sulla poca chiarezza delle norme primarie, nel tentativo di esplicitarle e/o di renderle esecutive, restituiscono ancora più incerta una cornice normativa entro cui deve agire la dirigenza pubblica.

Dirigenza che, d’altronde, per definirsi tale e non essere inalveata nello scosceso dirupo della burocrazia difensiva, in particolar modo quando è assente o poco chiara una normativa legislativa e contrattuale di regolazione di una materia, dovrà, nel motivare le proprie scelte, concretamente assumere il ruolo manageriale a lei richiesto ed accettarne i conseguenti oneri. E ciò senza cercare l’appiglio, talvolta forzoso, di una normativa che renda la sua attività vincolata e, dunque, apparentemente, al riparo dalla tanto evocata responsabilità.

In ciò risiede la reale differenza tra un dirigente preposto, come richiama la decisone della Consulta, al «consolidamento di una amministrazione di risultato» ed un timoroso burocrate. Solo una chiara ed esaustiva motivazione a sostegno della volontà decisoria di chi deve conseguire il pubblico interesse potrà esorcizzare la paura della firma perché, per quanto l’errore sia connaturale all’agire umano, l’esplicitare le ragioni delle proprie scelte quando sono in gioco complesse e sempre più specialistiche valutazioni, se non elimina lo sbaglio, sicuramente argina, ridimensionandola fortemente, la responsabilità.

Ma una convinta motivazione delle proprie scelte amministrative e gestionali presuppone conoscenza e competenza.

Conoscenza non improvvisata di un sistema giuridico ormai, per la diversità delle fonti regolatorie, sempre più multilivello; competenza nel decidere sempre più trasversale in quel pluralismo sociale ed istituzionale che si proietta nei procedimenti amministrativi e nelle istituzioni pubbliche e che rende articolata la ponderazione di interessi entro la quale si palesa la direzionalità amministrativa, parafrasando quanto affermato dalla Corte costituzionale.

Logico corollario a tale assunto, sarebbe stato, per chi ha l’autorevolezza istituzionale nel farlo, evocare in un più ampio quadro di suggestioni, anche più efficaci sistemi di formazione giuridica della nostra classe politica e più attente modalità di selezione della dirigenza pubblica.

Un maggior tecnicismo della politica restituirebbe la stessa più forte, perché consapevole dei propri spazi di azione.

Un sistema di reclutamento dell’alta dirigenza, fondante la sua relazione con gli organi politici su basi fiduciarie realmente tecniche, la renderebbe più autonoma. Un sano tecnicismo, nella pubblica amministrazione, è notorio, oltre che funzionale ad un buon andamento dell’azione pubblica, rende il dirigente un professionista libero, e non un mero esecutore di desiderata altrui, con consequenziale rischio di svilimento anche delle sue qualità professionali, ove presenti.

In conclusione, il non avere arricchito con un ulteriore stimolo di riflessione, proprio per l’autorevolezza della sua fonte, tale articolata e più ampia rimeditazione di una complessità storica, sociale e normativa, in cui la valutazione giuridica circa la fondatezza costituzionale di una norma pare rappresentare solo il frammento di un approccio fenomenologico più ampio, rischia di far apparire la ricostruzione della Corte costituzionale, di là di valutazioni squisitamente giuridiche che esulano da queta sede, come un puzzle sicuramente articolato ma non del tutto completo.

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