Bari è «una città nella quale c’è ancora una criminalità organizzata che domina i territori e, come dimostrano gli atti giudiziari, governa anche parte dei voti». A novembre 2023 Michele Laforgia, avvocato penalista tra i più noti e candidato alle primarie per il centrosinistra di Bari usò una frase che riletta oggi, dopo il terremoto scatenato dagli arresti della Dda e dallo spaccato che aprono, suona profetica ma anche inquietante. No, disse Laforgia a chi in quei giorni gli chiedeva di misurarsi con gli aspiranti sindaci del Pd, non si fanno primarie perché possono essere «inquinate» dai «portatori di voti». Oggi un provvedimento giudiziario certifica ciò che Laforgia ha annunciato.
Molto si discute e si discuterà sul valore di quella frase, se sia stata dettata dall’esperienza o se invece deriva da quel patrimonio di conoscenze privilegiate di cui l’avvocato Laforgia è portatore in quanto difensore di alcuni dei principali indagati nelle inchieste che nell’ultimo ventennio hanno coinvolto i colletti bianchi. Altre inchieste, sullo stesso tema, sono del resto aperte e le ipotesi di reato sono conoscibili in quanto contenute in provvedimenti già notificati. E resta comunque il fatto che esattamente 15 anni fa un’altra inchiesta dell’Antimafia barese, ai tempi battezzata Domino, aveva messo in scena esattamente lo stesso spettacolo: i soldi del clan Parisi che si infiltrano nell’economia legale tramite gente dalla faccia pulita, e si tramutano in grandi investimenti. L’edilizia, certo, ma anche le imprese commerciali che al clan strizzano l’occhio. Stessa storia anche allora, nel 2019: l’avvocato, il consigliere comunale, gli imprenditori, i faccendieri tutti arroccati nella strenua difesa dei reciproci interessi economici, in una zona grigia in cui i clan strizzano l’occhio alla politica e ne pretendono i favori dopo averla assecondata.
I protagonisti dei fatti, sempre salva la presunzione di innocenza, sono un po’ cambiati ma il metodo è sempre quello. Resta il fatto che i nomi associati alla politica, oggi come allora, sono quelli di chi passa con disinvoltura da destra a sinistra, acquistando voti e poi vendendosi al miglior offerente. Gente come l’avvocato Giacomo Olivieri, in auge da vent’anni nei migliori salotti della città, proprietario di un sito di notizie utilizzato per le estorsioni, che proprio come all’epoca faceva il faccendiere-bancarottiere dell’inchiesta Domino, Michele Labellarte, frequenta il Circolo Tennis, si fa ritrarre nei migliori salotti della Bari da bere e della sua dependance estiva, e poi si rivolge al mafioso per farsi recuperare la Porsche lasciata davanti al bar con le chiavi nel quadro oppure per far eleggere la nuova moglie. Tutto alla luce del sole. È patrimonio di conoscenza comune che a Bari sono aperte diverse inchieste sui rapporti tra mafia e politica: i giornali ne hanno scritto e continuano a scrivere. Eppure i personaggi sospettati di utilizzare quei metodi «opachi» continuano a sedere ai tavoli con gente che di solito, i mafiosi li denuncia, e parlano e continuano a parlare di voti e di alleanze. La consigliera Lorusso, moglie di Olivieri, ancora domenica era a una manifestazione pubblica e preparava la ricandidatura. Qualche giorno fa Michele Laforgia ha accettato le primarie «per il bene della coalizione», chiedendo «regole certe» per evitare brogli. È un segnale importante per il centrosinistra, ma forse alle persone perbene, che in questa città sono la maggioranza, piacerebbe piuttosto sapere che l’«opacità» è stata cancellata eliminando alla radice certe inaccettabili commistioni. Quelle che tutti conoscono.