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Kissinger, l’addio all’amico americano e i futuri scenari

 
Gaetano Quagliariello

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Gaetano Quagliariello

Kissinger, l’addio all’amico americano e i futuri scenari

Kissinger era nato giusto un cent’anni fa: in quegli anni Venti del Novecento che hanno rappresentato «la svolta» del secolo

Venerdì 01 Dicembre 2023, 14:57

Henry Kissinger è stato un gigante della diplomazia e, fino all’ultimo, delle relazioni internazionali. Dalle ultime sue analisi traspare un realistico pessimismo, che recupera una lettura di lunga durata nella quale non trova il minimo spazio quella deprecatio temporum tipica di quanti si trovano a parlare di un mondo che, per ragioni fisiologiche, non li avrà più protagonisti.

Kissinger era nato giusto un cent’anni fa: in quegli anni Venti del Novecento che hanno rappresentato «la svolta» del secolo. Da poco si era conclusa la Grande Guerra ed essa aveva messo molti Paesi - tra quelli vinti ma anche tra i vincitori - di fronte a problemi inediti. Al loro cospetto, le culture politiche classiche furono obbligate a ripensarsi. Prese avvio quella che è stata definita «la guerra civile europea» e, con modalità meno evidenti, si posero le premesse per lo scontro cruento tra democrazie e totalitarismi.

Kissinger sapeva bene che la storia non si ripete mai due volte identica. Non di meno, temeva che cent’anni dopo il mondo possa trovarsi nuovamente di fronte a uno snodo drammatico, cruciale per il XXI secolo. Abbiamo attraversato gli esiti imprevedibili di una pandemia. Dovremo scontare le conseguenze di due guerre tanto incredibili quanto tragiche. E nell’ambito della politica interna, non sappiamo dove condurranno i segnali contraddittori che negli ultimi tempi ci sono pervenuti. Se i risultati delle elezioni in Spagna e in Polonia avevano fatto immaginare che le insorgenze populiste caratteristiche dell’ultimo decennio potessero rientrare nei ranghi, gli esiti in rapida successione delle presidenziali argentine e delle legislative in Olanda hanno azzerato quella fragile percezione.

Questo scenario rende un appuntamento del prossimo anno decisivo: «la madre di tutte le contese politiche». Ci riferiamo alle presidenziali americane che, con crescente probabilità, saranno la rivincita tra Donald Trump, ora nei panni dello sfidante, e il Presidente uscente Joe Biden che quattro anni fa lo sconfisse in una contesa controversa e dagli strascichi pirotecnici. Nella storia americana la disputa tra repubblicani e democratici è spesso stata lo scontro tra la visione isolazionista dei primi, seguaci di quella dottrina che vorrebbe l’America concentrata sui problemi del suo continente, e la propensione universalista dei democratici. A questa «legge» non sono mancate le eccezioni. Proprio a Kissinger, artefice agli esordi degli anni Settanta di una spettacolare apertura verso la Cina, si deve una di queste. E più di recente ricordiamo ancora come Georges Bush jr, dopo l’attentato alle Due Torri, sfidando proprio il realismo kissingeriano, assunse l’obiettivo di «esportare la democrazia». Trump tornò nell’alveo dell’isolazionismo classico, assegnandogli una inedita carica «sovranista» che, paradossalmente, ha valicato i confini nazionali divenendo caratteristica del populismo ovunque dove questo si è affermato.

Il Presidente che gli è succeduto ha seguito tutt’altro corso. Nessuno in buona fede può dubitare che sia stata innanzitutto l’attitudine dell’odierna amministrazione americana a impedire che Putin realizzasse i suoi obbiettivi in Ucraina senza colpo ferire. Ed è anche difficile negare che, dopo l’attacco di Hamas, l’America di Biden stia facendo il possibile per contemperare il diritto di Israele a difendersi con la necessità di evitare eccessi di reazione e, con essi, l’escalation della guerra. Tutto ciò potrebbe essere rimesso in discussione dal ritorno di Trump. Così come nuovi populismi potrebbero trovare nel suo successo una sponda, bloccando quei processi di «romanizzazione dei barbari» ai quali stiamo assistendo anche in casa nostra.

Gli anni Venti dello scorso secolo inaugurarono uno scontro tra libertà e dispotismo che tagliò trasversalmente le famiglie politiche, nonché le categorie di «destra» e «sinistra». Alla fine, allora, si riuscì a sconfiggere il diavolo totalitario soprattutto per l’aiuto che al fronte della libertà giunse dal mondo anglosassone, perché se la competizione si fosse limitata al suolo della Vecchia Europa la partita sarebbe stata certamente persa. Anche per ciò le prossime presidenziali americane appaiono cruciali. Perché se «il diavolo» riuscisse a introdursi nel «confessionale» anglosassone tutto diventerebbe maledettamente più difficile, anche perché all’orizzonte uomini dello spessore di Henry Kissinger non se ne scorgono.

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