Pur concedendo all’imprevedibilità della politica tutti i suoi diritti, la prospettiva del «governo tecnico» che la premier ha evocato qualche giorno fa, seppur al fine di esorcizzarla, non sembra né attuale né probabile. Non perché sia impossibile il verificarsi di un nuovo scenario emergenziale. Quando la crisi economica globale scala i suoi picchi, in un Paese che ha i fondamentali dell’Italia la possibilità che la situazione sfugga di mano è sempre dietro l’angolo. E ciò indipendentemente dalla composizione del governo in carica.
C’è però una circostanza incontrovertibile che non può essere bypassata: qualsiasi tipo di esecutivo, d’ogni razza e colore, ha bisogno, per essere varato, di trovare una maggioranza parlamentare. I governi tecnici, a tal riguardo, non fanno eccezione. È veramente difficile pensare che, dopo quanto accaduto nella scorsa legislatura, forze dell’attuale maggioranza possano permettersi di «aprire» a contributi dell’opposizione. Ancor meno pensabile che Pd o M5 Stelle possano decidere di confondere i loro voti parlamentari con quelli di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia nel sostegno a un nuovo esecutivo. Per questo, è presumibile che se l’attuale maggioranza dovesse andare in crisi, seppure a causa della sopravvenienza di una emergenza nazionale, l’unica strada praticabile sarebbe il ritorno alle urne: prospettiva che ad oggi non conviene a nessuno.
Tutto ciò significa che Giorgia Meloni può continuare a dormire sonni tranquilli? Sarei portato a rispondere di no. Anche se la sua situazione e quella del suo governo non può certo considerarsi «a rischio», i prossimi mesi saranno comunque per lei tempi di scelte importanti. Il fatto è che il suo alleato Matteo Salvini l’ha palesemente scavalcata a destra, non soltanto per i toni che adopera su problemi cruciali, ma anche per le alleanze strette in ambito europeo. L’aver portato Marine Le Pen sul palco di Pontida, oltre a creare un indubbio problema con un alleato decisivo come la Francia in un frangente nel quale il fronte principale sull’immigrazione passa dal confronto con la Germania, ha di fatto ufficializzato una sfida a destra. La Meloni avrebbe tutte le possibilità d’infischiarsene e di dedicarsi a espandere i suoi domini verso un centro che la «lite continua» tra Calenda e Renzi rende oggettivamente più sguarnito. L’impressione, però, è che non intenda prendere questa strada. Non tanto perché le dia fastidio avere concorrenti a destra (pas d’ennemis a droite) quanto perché tale scelta potrebbe veicolare l’accusa d’essere stata incoerente rispetto al suo passato. E la premier sembra proprio che tale rimprovero riesca a tolleralo meno di ogni altro addebito.
Se vorrà fare un salto di qualità nella capacità di governo, un certo tasso di rottura con scelte e posizioni del passato - quando si trovava all’opposizione -, si profila però indispensabile e persino fisiologico. Lei, per di più, avrebbe la possibilità «di contraddirsi» in nome e per conto dell’interesse nazionale. E la circostanza, se ben sfruttata, potrebbe persino consentirle di rinviare l’accusa al mittente. Non sembra, almeno per ora, che Giorgia Meloni voglia imboccare questa strada. Preferisce, in questa fase, destreggiarsi dando un giorno un colpo al cerchio (confermando il legame preferenziale con ungheresi e polacchi); l’altro alla botte, (visitando Lampedusa con la Von der Layen).
In politica, d’altro canto, le ambiguità, per periodi circoscritti, possono persino risultare felici. Queste fasi, però, sono a termine e poi, inevitabile, arriva il momento delle scelte. Quel tempo per Giorgia Meloni sembra essere prossimo. In mancanza di opzioni chiare, è difficile che possa pretendere dalle forze moderate attualmente al governo dell’Europa che da lei attendono un segnale, di ricevere un sostegno in dossier decisivi per il Paese quali, ad esempio, quello relativo al patto di stabilità e all’immigrazione.
Giorgia Meloni si è formata al tempo della Prima Repubblica. Sa perciò assai bene quali rischi si corrono restando a metà del guado. Attendere i risultati delle elezioni europee per scegliere, potrebbe risultare tardivo. E il prezzo sarebbe pagato più dal Paese che lei rappresenta che dal suo partito. Ma è giunto il momento di dimostrare che - come per ogni statista che si rispetti - anche per lei il Paese conta più del partito.