Patrizia Cavalli, oltre ad essere stata una grande poetessa, era donna di straordinaria finezza di spirito. Univa all’intelligenza eccelsa un senso estetico pronunciato, alla profondità di sguardo e all’acume nel leggere il mondo, un umorismo trascinante e una vera genialità dialettica. Di tutte queste - e altre - virtù spiccatissime e speciali che sono state di Patrizia Cavalli, due scrittori e autori di un documentario su di lei, Annalena Benini e Francesco Piccolo, riescono a dare conto. Il loro documentario, Le mie poesie non cambieranno il mondo, prodotto da Fandango e da poco presentato al Festival di Venezia, offre al pubblico un bel cameo di questa grande poetessa che ci ha lasciati poco più di un anno fa, nel giugno 2022.
Con materiale girato diverso tempo prima dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, i due scrittori ci raccontano a tutto tondo la poetessa. Merito loro, e anche merito moltissimo della presenza (anche scenica) di Patrizia Cavalli, lei che catalizzava l’attenzione in ogni circostanza per come era eclettica, poliedrica, sorprendente e originale in ogni suo pensiero, parola, silenzio. Lei che come un demiurgo pilotava conversazioni, reazioni, in qualche modo anche le emozioni dei suoi interlocutori. Lo faceva non per indole manipolatoria, piuttosto perché nutriva un profondo senso degli altri e della vita, vita di cui possedeva una conoscenza sapienziale, come solo può accadere ai poeti.
Sì, sapeva molto, moltissimo di come le cose vanno, tra gli umani e non solo, anche in cielo (molto meteoropatica, era appassionata del clima): e sapeva queste cose da sempre, da quando era molto giovane, mostrando, come accade in certe esistenze, l’ulteriore virtù della costanza nel carattere, una continuità nei modi, nelle idee, nella personalità.
Benini e Piccolo la stimolano, le rivolgono qualche domanda; basta poco perché Patrizia Cavalli incominci un lungo racconto di sé, un racconto libero, vulcanico, di volta in volta autoironico o nitido in modo spietato. A materiali d’archivio e a riprese di letture pubbliche dei suoi versi, si alternano dialoghi che hanno avuto luogo nel presente (di allora), conversazioni nella sua casa romana, a due passi da Campo de’ Fiori. Tempo sincopato dalle idiosincrasie, allegrie, malinconie di questa donna dal carisma irresistibile e dall’ossessione di un poetare che le ritma nella testa, fluido e naturale come può esserlo una seconda natura, un vestito che calza a pennello come sa fare il vero talento. C’è il rapporto con il lavoro, con il denaro, con il gioco d’azzardo, ma anche quello con la vita, la morte, la gelosia, l’amicizia.
L’infanzia a Todi, l’arrivo a Roma, l’incontro decisivo con Elsa Morante che la battezza poetessa. Il risultato è un ritratto a tutto tondo, fluviale e insieme intermittente, di quella stessa intermittenza che era di Patrizia, del suo modo di amare la vita e i suoi inganni, la vita che dà l’amore e lo toglie, che dà la salute e la toglie, la vita che non si ferma e intanto non smette di insegnare.
Un documentario che fa ridere e piangere, che commuove specie nel finale, quando accompagnata da Annalena Benini la poetessa esce per una breve passeggiata sotto casa, e avanza ondeggiante sul selciato di sampietrini (quel selciato di Roma che sempre ha odiato). Il sole è accecante e lei, nonostante porti gli occhiali scuri, lo stesso si scherma lo sguardo, un po’ barcolla, sciupata, tremebonda ma elegantissima con sulla testa un cappello di paglia a tesa piccola e il nastro a fantasia di fiori. Ammira dei bambini che passano in carrozzina, ammira l’aria di primavera che immaginiamo essere fresca, luminosa, persino profumata.
Poi la luce si dissolve, i titoli di coda (in sottofondo la musica di Diana Tejeira, solare sodale musicale di Patrizia Cavalli) dicono questa fine di una vita che ci lascia interdetti ma pieni di gratitudine. Perché i poeti sono rari, così rari, e lasciano dopo di loro scie lunghissime di meraviglia.