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Storie di diseducazione sentimentale nei video-trofei del sesso

Storie di diseducazione sentimentale nei video-trofei del sesso

 
Sergio Lorusso

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Sergio Lorusso

Storie di diseducazione sentimentale nei video-trofei del sesso

Il web del resto è il mercato del terzo millennio, i social sono un business, inutile nasconderlo, prosperati in una giungla priva di regole che qualcuno ha voluto spacciare – spesso dolosamente – per il regno della libertà

Giovedì 31 Agosto 2023, 13:12

Oggi la premier Giorgia Meloni arriva a Caivano, teatro del più recente stupro di gruppo venuto alla luce in questa terribile estate. Quali risposte concrete potrà dare non sappiamo. Probabilmente riguarderanno la situazione di degrado sociale in cui quel comune campano, come tante altre zone off limits del nostro Paese, versa. Il vero nodo, però, sta nel degrado delle relazioni umane, fino al loro annichilimento. Alla riduzione delle persone ad oggetto di piacere sessuale, sempre che di piacere si possa parlare.

Ma cosa sappiamo veramente delle trasformazioni indotte nel vivere sociale e nelle coscienze individuali dal web prima e dai social poi? Molto poco, specie chi non è un nativo digitale e che pure è stato travolto e rimodellato (talora pesantemente) nelle sue abitudini se non nel suo essere dalla «militarizzazione digitale globale» che l’avvento di internet ha prodotto.

«I ragazzi oggi non hanno la percezione della realtà», afferma Giulia Minoli. Vivono una vita virtuale. E – lasciando da parte l’isolamento da pandemia, che probabilmente ha inciso su alcuni, ma che non può divenire un comodo capro espiatorio – sono affetti da diseducazione sentimentale. Manca totalmente quell’educazione sentimentale che ai più attempati richiama alla mente il capolavoro ottocentesco di Gustave Flaubert (L’educazione sentimentale, 1869) e che, per quel che qui interessa, costituisce un passaggio fondamentale per approdare felicemente all’età adulta con un’affettività risolta. Quel processo di maturazione che nasceva dal contatto reale e dalla frequentazione dei propri coetanei, dalla sperimentazione quotidiana dei rapporti con l’altro sesso, e che oggi viene in buona parte appaltato al web e in primis ai social, che da supporto e integrazione della vita vissuta diventano spesso sostitutivi di questa, o quantomeno dominanti.

Ecco, allora, che una molteplicità di micro-realtà virtuali entrano in contatto, un contatto che non è mai condivisione (nonostante il seducente e fuorviante invito che caratterizza il capostipite dei social), dominato da codici di comportamento autocentrati e autoreferenziali. E il modello di affermazione e di gratificazione è quello che la realtà virtuale generosamente ci offre, quell’universo pornografico di apparente trasgressione ormai a portata di click, che in persone non ancora strutturate può diventare un pericoloso modello di «prevaricazione naturale» dell’altro sesso.

Il web del resto è il mercato del terzo millennio, i social sono un business, inutile nasconderlo, prosperati in una giungla priva di regole che qualcuno ha voluto spacciare – spesso dolosamente – per il regno della libertà, per una nuova Eldorado in cui tutti avrebbero potuto essere protagonisti senza inutili lacciuoli. Nei fatti, fondamentalmente, senza rispettare gli altri. Quel che conta è il profitto.

Da qui alla violenza sessuale, allo stupro di gruppo, il passo naturalmente non è breve. Essi rappresentano la più abietta delle conseguenze. Nessun automatismo, ma un collegamento da cui discende che il fenomeno non riguarda solo le periferie dimenticate dallo Stato, ma investe tutte le comunità e tutti gli strati sociali. Le cronache, purtroppo, sono estremamente prodighe nel fornirci esempi di brutali violenze e soprusi perpetrati negli «ambienti-bene» come nella middle class e non soltanto nei suburbi d’Italia.

E poi il valore delle immagini nella società dell’apparire, nel mondo ostaggio di selfie e videoselfie. Se in Sesso, bugie e videotape, film cult del 1989, il protagonista colleziona tenendole rigorosamente per sé le videocassette contenenti i racconti della vita, delle fantasie e delle esperienze sessuali delle varie donne che ha conosciuto, qui i macabri videotrofei vanno esibiti per attestare l’«impresa», diventano essi stessi lo scopo. Basti pensare che nel caso di Palermo l’organizzatore dello stupro collettivo non ha partecipato materialmente alla violenza, riservandosi il ruolo di regista delle riprese video con tanto di commenti delle turpi «prestazioni» dei suoi sodali. Confondendo, forse, il reale con la sua riproduzione, ignorando la sofferenza inflitta quasi si trattasse di uno dei milioni di video scaricabili dal web.

I giovani violentatori dunque hanno un’estrazione sociale diversificata e lo stupro, come scrive Dacia Maraini, sfortunatamente non è solo violenza fisica – lividi e lacerazioni possono guarire – ma distrugge l’identità futura della donna producendo «una ferita interiore che non si rimarginerà mai». Ecco allora l’invito ad una presa di coscienza collettiva, ad una maturazione culturale.

Cosa tutt’altro che semplice, intendiamoci, in una società che ormai si caratterizza, per dirla con Paolo Crepet, per la totale assenza della famiglia, che ha perso il suo senso e il suo orientamento. E in cui i social network hanno privato l’approccio con l’altro sesso dei tratti dell’attesa e della conquista. Fino alla degenerazione del ricorso alla violenza da parte dei predoni del sesso che somministrano alcool e droghe alle loro vittime per annullare le loro volontà. Giovani solo in apparenza forti, in realtà impotenti perché incapaci di utilizzare le armi (innocue) della seduzione.

Sesso, social e video-trofei. È questo il mantra che il nuovo millennio ci regala, per occultare un vuoto esistenziale sempre più incalzante.

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