Tutto è presa diretta, ormai: la vita, la morte e persino quanto precede una fine che presumibilmente è sopravvenuta per decisione volontaria. Se è tanto sconvolgente, il video a telecamere chiuse degli ultimi momenti della pallavolista Julia Ituma nel corridoio dell’albergo di Istanbul dove poche ore dopo ha perso la vita cadendo giù da un balconcino di un sesto piano, è perché prelude alla terribile fine di cui già sappiamo, quella morte su cui una volta di più i media si accaniscono, cercando misteri.
Ogni gesto suicida sconvolge, e quello di una persona giovanissima e «riuscita», ovvero capace, bravissima, di più ancora. Sconvolge e turba sempre, la morte volontaria, più ancora quando segni, indizi, non ce ne erano, quando la persona in nessun modo ha fatto supporre un suo disagio, né lo ha lasciato immaginare. Quando non ha chiesto aiuto. Quando, se lo ha fatto, lo ha fatto rivolgendosi a persone che non erano in grado di capire. Tutto fa male, della tristissima vicenda di questa ragazza nel fiore degli anni, nel fiore della vita e del successo, lei che (ripiegando su un insano e del tutto vano voyeurismo in presa diretta) osserviamo aggirarsi agitata e accasciata in un corridoio d’albergo, e poi a capo chino, tristissima anche vista così, da lontano e su un monitor, aprire la porta della stanza da dove non uscirà più.
Fa male, provare a figurarsi i motivi del suo malessere profondo, motivi che sempre, e in questo caso più che mai, potevano essere vari. Integrarsi come afrodiscendente in un Paese che continua a essere fondamentalmente e scandalosamente razzista. Intraprendere una carriera sportiva molto brillante, con tutta la pressione che un percorso del genere comporta, magari, in certi momenti particolarmente difficili, chiedendosi sino a che punto sia davvero il proprio cammino, quello veramente desiderato. Già, perché quando sei nell’agonismo, agonismo di alto livello, in qualsiasi campo e di qualsiasi tipo, quando il gioco si fa «duro», ovvero molto importante e stringente, delle crisi esistenziali «ci stanno», fanno parte del percorso se sei una persona in ascolto di sé stessa. Perché una facciata smagliante vuol dire sacrificare tante parti dell’anima che il mondo non vuole e che ignora, parti che se conoscesse, non considererebbe nemmeno. Perché come che sia, qualcosa della vera natura degli altri ci sfugge, e se la loro esistenza finisce, ci sfugge per sempre.
Pesi, oppressioni, dolori, nella vita di Julia Ituma ce ne erano certo, e mai li sapremo davvero, quale che sia, o sarà, la versione ufficiale data dai media circa la sua morte. Ogni fine porta via con sé segreti che non verranno disvelati mai. Ma a sconvolgere e addolorare ancora di più, qui, c’è il pensiero di una dissociazione tra l’apparenza di una persona e il suo mondo interiore. Qualcosa su cui ogni suicidio fa riflettere, una discrepanza tra due parti di sé, uno scollamento che certe volte neppure la persona è in grado di assumere e di lì, gestire con l’aiuto di supporti psicologici adatti.
E ancora, il pensiero che il mondo così come è, il mondo che vuole tutto in presa diretta, tutto esposto, tutto detto, tutto dicibile, visibile, monitorabile, di dissociazioni profonde e malesseri psichici complessi e celati non sa cosa farsene. Li ignora del tutto. Nodi psicologici che sono d’intralcio, complessità eccessive che rappresentano l’opposto della socialità, in uno scenario che vuole invece ogni cosa il più possibile «socializzabile» (condivisibile).
Si condivide in rete un video sugli ultimi momenti di disperazione e insopportabile turbamento di una giovane campionessa di pallavolo, un futuro di successi sportivi davanti a sé, ma di chi fosse davvero lei, cosa abbia provato quella notte e prima, cosa sentisse, cosa le capitasse, scoop a parte, nessuno si cura. Cosa conta? là dove quel che conta è la performance, nient’altro. Riuscire, brillare, vincere, farsi notare, rendere ogni propria peculiare specificità un motivo di orgogliosa auto-esibizione. Magari dentro stai crollando, sei a pezzi, ti senti dannatamente sola o solo, la testa affollata di ragionamenti martellanti, difficili, scomodi, ingestibili.
Ma al mondo non importa, perché quel che importa è la riuscita, la performance. Essere all’altezza della promessa che rappresenti. Far coincidere in ogni modo contenuto e forma, adeguare l’anima all’immagine esteriore che metti in mostra. Intanto gli scollamenti interni si moltiplicano, i malesseri psicologici aumentano in modo vertiginoso, le persone stanno malissimo sotto gli occhi di chi le conosce ma nessuno di queste accetta di dover farci caso. Un simile inquietantissimo scenario anche piangiamo, piangendo la morte della giovane Julia Ituma, la tragedia della sua fine in presa quasi diretta.