«E gli europei come porcellini si sono subito uniti» al lavoro di demolizione dello spirito russo architettato, secondo Putin, dall’amministrazione guidata da Joe Biden... Anche Vladimir il Grande, dunque, alla guerra aggiunge i giochi e gli scherni delle parole, secondo la moda del nostro tempo.
Già. Parole parole... Ma le parole servono ancora? Tira un brutto vento per la civiltà verbale, orale e scritta, quella tradizione di senso e significato che si ispira ai valori e alle buone maniere, che stanno perdendo terremo sulla scena mondiale. Soppianta la vecchia logica un’altra attitudine comunicativa, quella dei fatti, delle opere, dell’agire o, tutt’al più, della denigrazione e dell’insulto. Sicuramente il pragmatismo non appartiene alla filosofia europea, che preferisce il mondo delle idee.
Ma le parole hanno comunque imboccato una strada in discesa reclutando quanti non vogliono più perdere tempo, dichiarano di non essere disposti a sofismi e a danze verbali che si riassumono in negoziati e trattative ma che non portano concretamente da nessuna parte.
Il capovolgimento dell’attitudine dalle parole ai fatti si sta producendo in primis sulla scena della politica e della diplomazia globali. Dove, nonostante lo sforzo del mondo intero e della buona volontà dei «volenterosi», la caduta delle parole è tracciata dalla rinuncia alla dialettica. Gli spiriti di stampo trumpiano dichiarano che sono stufi delle parole. Facciamo un solo esempio. Per entrare in Usa controlleranno quello che sui social il turista in transito ha pubblicato negli ultimi cinque anni.
Una misura bizzarra per filtrare anche quella materia effervescente e aleatoria che sono le parole. Ma anche gli spiriti putiniani dicono che le parole non servono alla diplomazia e minacciano di intervenire con la forza: «L’esercito sta avanzando» e quello che l’Ucraina non cederà sarà riconquistato manu militari.
I deboli e i derelitti di Gaza, intanto, inascoltati si contentano di emettere lamenti dalle miserevoli corazze che nulla possono rispetto al clangore delle armi e ai massacri. Un’altra dottrina che non sia quella dei diritto garantisce i più forti. La diplomazia abbandona il giardino della conversazione che fino ad oggi era stato coltivato nei cortili e nei salotti. Gli amici e potenziali concorrenti si combattono a suon di insulti, parole offensive, marchi di deficienza e magari ripescano nel vecchio citazionismo del «siete dei poveri comunisti» che una ministra riserva agli studenti ad Atreju. Non c’è più spazio per saggezza, ironia, buone maniere. Tutto ciò si traduce in un linguaggio in primo luogo bellico, ostensivo della forza prima ancora che della grazia.
Il capovolgimento della logica della pace viene da lontano, condiziona le radici di un uomo del ventunesimo secolo che è cambiato rispetto al suo antenato sostituendo il potere al dovere. Il cambio di passo nella geopolitica viene dalle relazioni interpersonali, che sono state per prime investite dalla incrinatura dei rapporti, invece di condivisione e cooperazione sembrano avanzare coesistenza e inclusione. Le parole, quando pure sopravvivono, si usano per l’unica modalità contemplata, l’aggressione verbale, e il conseguente concerto dell’ hate speech, che manovra il linguaggio d’odio.
Il sole non sembra mai tramontare sulla notte di questa nostra epoca.
















