Troppo ambizioso o troppo prudente? I due opposti giudizi sul programma del governo Meloni non riflettono solo le opinioni favorevoli o contrarie dei partiti di maggioranza e di quelli di opposizione. Diffuse e trasversali rispetto a entrambi gli schieramenti politici leggiamo considerazioni di osservatori che magari non sono del tutto imparziali ma tuttavia hanno meno pregiudizi e sono meno inclini a polemiche e indulgenze partigiane della destra o della sinistra. Chi pensa che quello illustrato al Parlamento e ribadito dalla presidente del Consiglio nel discorso di fine anno sia un programma troppo ambizioso non sta giudicando il merito e la qualità dei propositi annunciati ma si sofferma sulla loro realizzabilità. In effetti, scorrendo i capisaldi del programma si capisce perché a Meloni tremino le vene e i polsi e perché molti scommettano sull’impraticabilità di sfide così temerarie. In concreto si vorrebbe cambiare la natura della nostra democrazia parlamentare in senso presidenziale (o semipresidenziale), passare dall’attuale architettura unitaria dello Stato a una che accentua e differenzia le autonomie regionali e insieme riformare in radice l’amministrazione della giustizia separando le carriere di giudici da quelle dei procuratori e abolendo l’obbligatorietà dell’azione penale. Due su tre di queste grandi riforme richiedono revisioni della Costituzione quindi doppie letture e maggioranze qualificate. Insomma, tempi lunghi.
Ora, se è vero che l’attuale ampia maggioranza può affrontare, se unita, passaggi parlamentari anche impervi l’esperienza insegna che moltiplicare le sfide non aiuta a vincerle. A queste difficoltà ordinarie si aggiunge l’insidiosa circostanza che ciascuno dei tre partiti della maggioranza lega il suo nome e la sua lealtà coalizionale a una delle tre riforme: Fratelli d’Italia e la premier alla riforma presidenzialista, la Lega all’autonomia regionale differenziata, Forza Italia alla riforma della giustizia. Siccome procedere simultaneamente all’esame e al varo di tutte e tre le riforme non sarà tecnicamente possibile anche ammesso che la concordia sia totale e senza riserve da parte di tutti, si creeranno inevitabilmente sfasature temporali nell’approvazione dei tre provvedimenti e in politica i tempi se non tutto sono quasi tutto.
Presumibilmente saranno queste le occasioni di cui cercheranno di approfittare le opposizioni per allungare i tempi di discussione sperando in un inciampo o in un incidente tale un voto contrario, l’astensione di qualche franco tiratore al Senato o anche solo un passaggio a vuoto che inneschi reazioni a catena. Nella Prima Repubblica ai governi e ai loro programmi si adattava un’icastica formula dagli antichi romani spesso usata per sigillare le clausole di un negoziato: simul stabunt vel simul cadent, insieme stanno o insieme cadranno. Oggi potremmo parlare di una clausola di dissolvenza dell’accordo pattuito in caso di inadempienza di uno dei partner. Ciò detto i governi contemporanei sono molto più duttili e lo dimostrano ogni giorno non arrendendosi mai alla ferrea logica dei nostri antenati per cui, niente paura, in caso di incidenti parlamentari Giorgia Meloni aprirà un negoziato e se fallirà il primo ne aprirà un altro. Ciò non toglie che una sconfitta, una rinuncia decisiva o anche solo un arretramento su uno dei fronti più importanti lederebbe l’immagine vincente della premier. Di sicuro questo è l ’obbiettivo delle opposizioni che finora non hanno fatto nulla per contenere le reciproche ostilità che le rendono impotenti. Il PD è alle prese col suo congresso e ci vorranno almeno altri due mesi prima che torni in campo e si decida a chiudere la porta in faccia a chi lo sta vampirizzando.
Conte, invece, sta bene dov’è a fare quel che fa: il leader di un partito personale che specula sulla rendita elettorale e politica del reddito di cittadinanza e accusa chi vuole cambiarlo di fare la guerra ai poveri. La risorsa dei 5 Stelle è destinata a finire ma, finché dura - e durerà per tutta l’agonia cui l’ha condannata il governo - nutrirà la rabbia e poi motiverà il rimpianto di chi il reddito l’ha avuto e non l’avrà più. Il Terzo Polo dopo il 25 settembre non è cresciuto di un palmo, segno che la polemica quotidiana col PD non sposta voti. Quanto al PD se non chiude la porta sbagliata non ne aprirà nessun’altra, peggio, vedrà elettori e militanti uscire dalle sue di porte.