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Riforme senza risultati: è il paradigma della Giustizia civile

 
Emmanuele Virgintino

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Emmanuele Virgintino

La quantità di risorse da impiegare in qualsiasi funzione dello Stato ma anche in qualsiasi intrapresa privata, dipende dall’obiettivo che si intende perseguire e dalla organizzazione che si intende apprestare

Martedì 10 Gennaio 2023, 13:20

Il pezzo a firma di Salvatore Rossi «I tempi biblici dei processi. La grande ingiustizia della nostra giustizia» merita adesione dal momento che proviene non da un «addetto ai lavori» in senso stretto ma da un economista, uno scienziato di chiarissima fama, ben distante dalla quotidiana querelle che vede coinvolte magistratura ed avvocatura, ma non per questo meno autorevole.

Economia e giustizia, un binomio di grande attualità nel panorama nazionale ed europeo, specie a seguito della entrata in vigore del Codice della Crisi e dell’Insolvenza, i cui capisaldi fondano sulla cultura della emersione tempestiva della crisi, al fine di salvaguardare la continuità aziendale e, con essa, posti di lavoro, produttività, investimenti.

Tutto questo fonda, a propria volta, sulla capacità della macchina giudiziaria di assicurare risposte di particolare qualità tecnica e, soprattutto, rapide.

Seguo il fil rouge del prof. Rossi e non affronto il drammatico tema della giustizia penale, mentre qualche contrappunto, a cominciare dalla scarsità delle risorse, da sempre e da più parti indicata come la causa principale della inefficienza della risposta giudiziale, sembra necessario.

La quantità di risorse da impiegare in qualsiasi funzione dello Stato ma anche in qualsiasi intrapresa privata, dipende dall’obiettivo che si intende perseguire e dalla organizzazione che si intende apprestare.

La corretta allocazione delle risorse dipende, poi, dalla corretta e stabile organizzazione della funzione.

La giustizia civile rappresenta il caso paradigmatico, all’inverso, di tale assunto: non si contano, infatti, le «riforme», più o meno invasive, che da almeno una trentina di anni hanno riguardato il codice di procedura civile, nell’erroneo convincimento che la modifica di un ordinamento processuale sia da solo idoneo, nel breve periodo, a ribaltare una situazione alquanto preoccupante sotto il profilo dei risultati.

È fuori di discussione, infatti, che anche la più piccola manomissione del rito comporti adeguamenti a cascata nella organizzazione. Figuriamoci le ambiziose riforme «di sistema» con tutto il loro carico innovativo che, tradotto in termini pratici, significa molti anni di incertezze interpretative, di doppi, tripli e quadrupli riferimenti normativi intertemporali, di formazione, di aggiornamento dei sistemi informatici e tanto altro.

Cioè, ad organizzazione sostanzialmente invariata e con la tentazione, sempre dietro l’angolo, della ulteriore revisione della c.d. «geografia giudiziaria».

E, allora, si vorrà convenire che prima di riformare bisogna testare il modello organizzativo esistente, comprenderne la capacità di assecondare le finalità sottese alle riforme, modificarlo, aggiornarlo alle mutate esigenze, individuare le risorse finanziarie perché questa «azienda» possa essere risanata, rilanciata ed in grado di assicurare la risposta giudiziaria in tempi ragionevoli e, soprattutto, utili.

È o non è la stessa ragione che ha mosso il legislatore del Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza?

Perché, nello stesso modo, questo non dovrebbe essere «esigibile» dalla collettività, dalla magistratura, dall’avvocatura, dai lavoratori del comparto (come si diceva una volta)?

Eppure sono tempi di vacche grasse, il PNRR assicura denari, tanti denari.

Il Consiglio Nazionale Forense nel documento rilasciato proprio in occasione del PNRR ha esordito – a proposito del processo e, in particolare, del processo civile - con una lapidaria richiesta di «armistizio sui riti» naturalmente disattesa.

L’avvocatura è, come sempre destinataria di qualche strale a proposito del suo ruolo nello scenario ed il leit motiv è sempre quello del numero eccessivo. Potrei fornire molte spiegazioni sulla genesi dell’alto numero ma non è questa la sede. Il dato è oggettivo.

Quello che, finora, non avevo mai sentito è che la struttura dei compensi contiene degli «incentivi perversi». Magari! Per il momento, abbiamo conseguito il risultato dell’aumento pari nientedimeno che al 5% flat delle tariffe a disposizione del giudice per la liquidazione dei nostri compensi e siamo da qualche anno in attesa di sapere se il legislatore vorrà completare il percorso per assicurare tutela anche a questi lavoratori della giustizia, riconoscendo loro quell’equo compenso che li sottrarrebbe dalla tentazione di assecondare (talvolta anche un po’ troppo) i propri clienti.

La questione giustizia è sempre di attualità, come si vede e gli autorevoli interventi che provengano da personalità di rilievo, quale il prof. Rossi, non possono che giovare.

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