Sa un po’ di «eterno ritorno» la vicenda dell’abuso d’ufficio, figura di reato assai controversa – protagonista di una «tormentata parabola storica» secondo la Corte costituzionale – e soggetta a ben quattro interventi del legislatore nell’arco di poco più di un ventennio. Tutti interventi mossi dalle più buone intenzioni, ma nessuno risolutivo.
Tutti (tranne la legge Severino del 2012, che ne inaspriva i contenuti sanzionatori) tesi a rendere la disciplina meno permeabile alla discrezionalità di chi la norma è chiamato ad applicare, per arginare il proliferare di indagini e di processi – sfociati il più delle volte in archiviazioni o assoluzioni – a carico di esponenti della pubblica amministrazione, fonte di danni sia individuali (processo mediatico che la notorietà dell’accusato alimenta fin dalle prime battute del procedimento, nocumento all’immagine, alla reputazione e, naturalmente, alla carriera) che collettivi (per quell’atteggiamento difensivista che si è sviluppato e che si traduce in un freno, quando non in una stasi, dell’attività amministrativa). Una discrezionalità talvolta esasperata in nome di «un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori» (sono sempre parole della Consulta), che lede la sfera di autonomia che a quest’ultimi compete.
Le parole pronunciate davanti all’Assemblea nazionale dell’Anci dalla premier Meloni – che ha preannunciato senza se e senza ma una rivisitazione delle norme in materia di reati contro la Pubblica amministrazione, proprio a partire dall’abuso d’ufficio (ma ne aveva parlato anche il guardasigilli Carlo Nordio, definendola una priorità del governo) – hanno infiammato il pubblico degli addetti ai lavori, ma occorre essere cauti – o meglio, realisti – e non lasciarsi avvincere da facili entusiasmi.
Non basta, infatti, riformulare un articolo del codice penale in un ambito fortemente segnato dalle dinamiche (talvolta anomale) dei rapporti tra politica e magistratura per risolvere le criticità anzidette. Fino a quando l’abuso d’ufficio costituirà nei fatti lo strumento privilegiato con cui effettuare una sorta di controllo (general)preventivo sull’operato della pubblica amministrazione, neanche la penna del più brillante legislatore probabilmente riuscirà a colmare «l’enorme divario» esistente «tra la mole dei procedimenti per abuso d’ufficio promossi e l’esiguo numero delle condanne definitive pronunciate» (ancora la Corte costituzionale).
Assisteremo, con ogni probabilità, ad un ennesimo – il quinto – riallineamento interpretativo, teso a vanificare gli effetti della riforma. La legge, anche quella penale, non è mai un monolite. La storia della norma lo conferma.
Sarebbe necessario un (poco probabile) intervento «culturale» che restituisse al terreno della discrezionalità amministrativa ciò che le è proprio. Senza per questo, naturalmente, deresponsabilizzare sindaci e amministratori locali, né tantomeno dotarli di una sorta di immunità; ma, piuttosto, liberandoli da quella «paura della firma» in più occasioni segnalata. Quella «burocrazia difensiva» evidentemente in contrasto con il buon andamento e l’efficienza della pubblica amministrazione e che può tradursi in un alibi per l’inerzia della macchina pubblica, come sottolineato dall’ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone.
Più che ad astratte battaglie ideologiche, insomma, occorre guardare ai risultati possibili.
Innegabile che, troppo spesso, l’abuso d’ufficio è stato considerato un «mandato a cercare», come affermato tempo fa da Luciano Violante (magistrato, prima ancora che politico). Ma non si può attribuire la responsabilità di ciò soltanto alla genericità della norma (quando lo era) o alle forzature degli uffici dell’accusa.
Il punto è un altro. È la normativa amministrativa, spesso farraginosa, a non consentire un’adeguata tutela degli interessi dei singoli ed è il basso livello di determinatezza di tale normativa a rendere vani i tentativi di incidere sulla tipicità della norma penale, limitandone la deformabilità e, dunque, l’impropria utilizzazione con le relative distorsioni che trasformano l’abuso d’ufficio in un «contenitore» da utilizzare alla bisogna e con le ricadute negative di cui si è detto.