La «riforma Cartabia» licenziata dal precedente Governo il 17 ottobre, il giorno prima che entrasse in vigore, è stata, nei suoi aspetti che riguardano l’ordinamento penale, temporaneamente congelata con un decreto legge del 31 ottobre, varato d’urgenza dal nuovo Governo.
Oculatamente, l’esecutivo appena insediato ha preso atto delle vertiginose difficoltà applicative della riforma e per questo, per il momento, ne ha deciso lo slittamento dell’entrata in vigore al 30 dicembre 2022. Si apre quindi una parentesi temporale in cui è possibile non solo approntare quegli strumenti (anche informatici) necessari alla concreta applicazione delle norme, ma anche - volendolo - rivedere quelle che destano maggiori perplessità.
Non a caso, da più parti nell’ultima settimana si sono levate voci molto critiche sul nuovo assetto dell’ordinamento penale, così come ridisegnato dalla riforma. Basti pensare che qualche giorno fa la procura di Bari ha concluso, con numerosi arresti, una importante indagine per voto di scambio politico-mafioso; nel corso della conferenza stampa, il procuratore ha aggiunto che «con l’applicazione della riforma Cartabia per questo tipo di reati, probabilmente non saremmo stati in grado di fare la stessa indagine». Affermazione cui hanno fatto eco molte altre del medesimo tenore. Il recente legislatore avrebbe quindi introdotto disposizioni tali da impedire lo sviluppo e la proficua conclusione di indagini «di sistema», complesse e necessariamente laboriose: è proprio questo l’aspetto che desta viva preoccupazione tra gli operatori del diritto.
Come noto, l’ampio processo riformatore ha inciso sia sull’autogoverno della magistratura (nuova composizione e nuovi meccanismi di funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura), sia sul sistema penale nel suo complesso. Ma il profilo più controverso riguarda la statuizione di un principio del tutto inedito, che può essere così sintetizzato: allo scadere del termine di indagine, trascorso un tempo di «riflessione» indicato dalla legge, il pubblico ministero ha l’obbligo non solo di comunicare l’esistenza del procedimento agli indagati, ma anche di «scoprire» tutte le carte dell’indagine. Ed anche ove sia stata richiesta una misura cautelare, non si concedono al pubblico ministero più di ulteriori sei mesi/un anno di segreto istruttorio, dopo i quali, in ogni caso, si è tenuti a svelare gli atti: in altre parole, a bruciare l’intera indagine. Questo il punto, rimarcato anche dal procuratore barese, secondo cui con l’applicazione della riforma «saremmo stati costretti a comunicare agli indagati l’esistenza di questa inchiesta».
Un meccanismo che, nei casi investigativi ordinari e di più rapida definizione, può certamente funzionare, evitando che il pubblico ministero rimanga inerte a fronte di un procedimento che potrebbe invece definire: superare la stasi è, d’altronde, lo scopo principale della norma appena introdotta. Ma con ogni evidenza non si è tenuto conto delle indagini più complesse, quelle che riguardano le mafie, le collusioni con la politica, il terrorismo, le associazioni dedite alle bancarotte e le corruzioni dei colletti bianchi, quelle cioè che mirano a far emergere un «sistema» criminale.
Indagini che richiedono tempi di definizione molto lunghi (basti pensare alle centinaia, a volte anche migliaia, di pagine di un’ordinanza cautelare, da elaborare e da scrivere, che segue ad una altrettanto corposa richiesta dell’ufficio inquirente).
Perché a ben vedere la riforma Cartabia presenta una criticità di fondo: adotta modelli generali senza considerare le peculiarità della giustizia italiana (che si collegano poi ai peculiari fenomeni criminali del nostro Paese). Al netto di differenti termini di durata, considera le indagini tutte allo stesso modo, quella per il furto della bicicletta come quella sul clan mafioso; e specularmente tratta i processi tutti allo stesso modo, quello per violazione di domicilio come quello che vede alla sbarra associazioni di colletti bianchi dedite al riciclaggio. Il gradiente di complessità e laboriosità è molto diverso: una circostanza che la riforma ha mancato di considerare.
Se è vero che la giustizia penale è stata ridotta negli ultimi tempi ad un ammasso indistinto di numeri e cifre, nel nome della celerità e dell’efficientismo, adeguiamoci e ragioniamo pure negli stessi termini: con le disposizioni introdotte dalla «riforma Cartabia» è matematicamente impossibile portare avanti una seria (e scrupolosa) indagine «di sistema», che verrebbe inesorabilmente bruciata prima che possa concludersi. Giusto per avere un termine storico di confronto, con ogni probabilità non sarebbero state ultimate le indagini di Falcone e Borsellino, quelle sulle stragi siciliane, quelle che hanno sgominato le sanguinarie bande di camorristi, quelle sui principali capi- bastone della ‘ndrangheta; e - non dimentichiamolo - quelle che hanno condotto ai maxi-processi alla sacra corona unita. Per fare un lavoro investigativo solido e ricercare prove tali da reggere in ogni grado di giudizio, occorre tempo; invece, le regole imposte dalla «riforma Cartabia» impongono - medio tempore - agli uffici di procura di svelare tutto, anzitempo.
Il nuovo Governo, in queste prime battute, ha mostrato attenzione al buon andamento della giustizia penale, intanto posticipando l’entrata in vigore della riforma: un atto di discontinuità con il precedente esecutivo. Ora, nelle settimane che verranno, sarà necessario aprire un confronto, volto a non disperdere un trentennale patrimonio legislativo di contrasto ai più perversi e sistematici fenomeni criminali e a bonificare il rischio di impunità per mafiosi, terroristi, colletti bianchi collusi e bancarottieri.