C’è, nell’omicidio di Civitanova Marche, un’inspiegabile eccedenza di violenza: quella agìta dal presunto aggressore, un operaio italiano e quella tollerata, non impedita, persino ripresa dalle persone presenti. Alika Ogorchukw, cittadino nigeriano, è stato ucciso nel centro di Civitanova, venerdì pomeriggio, per essersi rivolto alla compagna del presunto aggressore chiedendo di comprargli dei fazzoletti o di dargli «un euro». Ed è stato ucciso, barbaramente, con la stampella che serviva ad Alika, claudicante, per sostenerne il passo. Quello stesso ausilio utile a compensarne la fragilità gli è stato, dunque, rivolto contro con una violenza tale da causargli la morte. Di più. L’aggressore si sarebbe, a quanto pare, seduto sul corpo già straziato di Alika, schiacciandogli la testa per terra quasi strozzandolo, in un’immagine che ne rappresenta, plasticamente, la condizione di sottomissione.
Non sappiamo che incidenza abbia avuto, nel movente dell’omicidio, il fatto che la vittima fosse un cittadino straniero. Sappiamo, però, che se ne percepiva, persino visibilmente, la condizione di debolezza: un ambulante appoggiato a una stampella, costretto a chiedere «un euro» di elemosina o un piccolo acquisto. Ma parallelamente a questo barbaro pestaggio si è consumata un’altra, incomprensibile, violenza: quella dell’indifferenza di molti passanti che, invece di intervenire per salvare Alika o chiedere soccorso alle forze dell’ordine, hanno preferito riprendere la scena, filmarla come fosse uno spettacolo da ammirare. E alla richiesta, avanzata da alcuni volontari della Croce gialla, di interrompere le riprese, alcuni avrebbero risposto in maniera scomposta, rivendicando il loro (preteso) diritto di filmare ciò che volessero, quasi come non ne divenissero in tal modo complici.
La disimpegnata omissione dei passanti, non sentitisi in dovere di intervenire ma di riprendere la scena (quando, peraltro, la presenza di telecamere di sorveglianza avrebbe comunque garantito la ricostruzione della vicenda), non può non colpirci. Non è, certo, la prima volta che si assista con il telefono in mano a una morte, accidentale o provocata senza tentare di impedirla. È anche accaduto, fin troppo spesso, che autori di violenze di ogni tipo abbiano filmato le loro stesse azioni criminali, quasi in una folle, incomprensibile, ebbrezza. Ebbene, tutto questo non può non toccarci profondamente.
Lo stesso atteggiamento dei passanti ci interroga con un’urgenza persino più forte della riprovazione che, istintivamente, suscita. Perché, forse, tutti noi stiamo diventando, progressivamente, sempre più spettatori inerti della male sopportato dagli altri, come se la stessa morte perdesse la sua drammatica straordinarietà.
È difficile dire se questo sia l’effetto dell’indebolirsi delle relazioni sociali (per effetto della rarefazione dei contatti «reali» propria dell’oggi) o, forse, della stessa digitalizzazione che ha subito la nostra vita, sempre più proiettata nella dimensione virtuale, quasi fosse più concreta di quella reale. Certo è che questa tendenza a traslare on line ogni nostra attività, a ridurre la complessità delle biografie in immagini affastellate, bulimicamente, le une sulle altre sui social, rischia di farci soggiacere - in una pericolosa assuefazione alla «banalità del male» - alla legge mimetica della violenza.
E proprio a fronte della passiva tolleranza dei passanti colpisce, come un richiamo forte alla «nuda vita» e alla realtà nella sua immane concretezza, la frase della moglie di Alika: «Voglio guardare in faccia l’assassino di mio marito e chiedergli: perché?». La donna rivendica, con forza, una relazione con chi le ha ucciso il marito, che passi dallo sguardo: non inerte ma tale da interrogare la coscienza, da provocare una reazione, richiamando l’uomo al suo essere uomo. E dunque, come scriveva Terenzio, mai estraneo a tutto ciò che è umano. Alla «patologia del confine», alla distanza inerte dall’altro propria di questo tempo, la donna oppone dunque la ricerca di un contatto. Alla rigida indifferenza oppostale come una frontiera, un muro (limes) ella risponde ricercando un punto d’incontro, una soglia (limen: Mauro Magatti, I confini diventino soglie di dialogo e connessione, «Corriere della Sera», 9 giugno 2022). Un insegnamento prezioso per non diventare inerti spettatori di una progressiva perdita di umanità.