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I social dimostrano quanto sia complicata l'arte del dialogare

 
Alessandra Peluso

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Alessandra Peluso

C’era una volta il piazzista da piazza. Ora è social

Le relazioni d’affetto prive di interesse sono rare giustappunto perché parafrasando lo stesso Aristotele la massa ama ricevere del bene ma quando deve farlo evita perché si sa non si guadagna nulla

Martedì 19 Luglio 2022, 14:45

«Tutti sanno dire, ma pochi sanno parlare», pochi sanno ascoltare e riconoscere le tappe di una conversazione. Già con Nietzsche e agli inizi della modernità si individua il dramma della non presenza dell’ascolto, dell’assenza del silenzio, della non coscienza della parola che nella contemporaneità assume toni tragici giungendo perfino ad annullare tali momenti indispensabili per la relazione dell’Io e del Tu. O del lei?

Con la diffusione dei social si è reso sempre più visibile quanto sia complicato dialogare e come molti avendo l’opportunità di dire credono nella presunzione dell’Io: si abbattono le differenze, il rivolgersi con un «lei» a una persona diventa quasi un fenomeno irriverente dove a risultare ineducato è chi tende all’altro con rispetto e la giusta distanza al cospetto di chi invece crede che tutti siano amici. L’amicizia – ricordiamo – è un sentimento che per Aristotele costituisce la trama intricata delle relazioni umane ma che ha anch’essa differenti tipologie. Le amicizie sono rare. Hanno bisogno di tempo. Di conoscersi e riconoscersi reciprocamente. Di consuetudine. Di fiducia. Poi ci sono quegli «amici per l’utile che sciolgono l’amicizia insieme al venire meno dell’utile: non erano amici l’uno dell’altro, ma del profitto».

Le relazioni d’affetto prive di interesse sono rare giustappunto perché parafrasando lo stesso Aristotele la massa ama ricevere del bene ma quando deve farlo evita perché si sa non si guadagna nulla. L’umano non è cambiato. È mutata la storia. Le epoche. Ma non l’uomo. Con la contemporaneità difatti e con ciò che determina questa età si sono acuite tali problematiche già presenti, insite nelle società e che il mondo digitale come un evidenziatore giallo le ha poste in luce per chi sa porgervi lo sguardo. Se è opportuno ma non indispensabile che ognuno esprima la propria opinione, non tutte le opinioni valgono allo stesso modo e non si possono considerare indistintamente giuste o sbagliate, a favore o contro.

Massificare le opinioni comporta un’indifferenziazione costante e una confusione di parole. Non siamo sulla Torre di Babele dove ognuno parla la propria lingua e non viene compreso, bensì ci troviamo su un piatto volante dove l’orizzontalità mescola e rimescola fino a produrre l’indistinto. «La nausea». Si mostra a noi il triste risultato dell’incapacità di comunicare. È un’arte. Ce lo insegnano illustri maestri quali in particolare Plutarco, Seneca, Cicerone. Le lezioni dei classici. Dialogare è un’arte. Così l’ascolto e il silenzio. Si insegnano e si apprendono durante la vita scolastica e famigliare in primis, o almeno dovrebbe accadere. È fondamentale educare al dialogo: rispettare i momenti di ascolto e di silenzio anche per dialogare con se stessi e sapersi ascoltare. È essenziale imparare a farlo. Talvolta la mancata alfabetizzazione depauperata dall’umiltà e dalla saggezza non guida alla conversazione ma a imporre magari alzando il tono della voce e ad attaccare l’interlocutore con «tu sei contro quello, o a favore di quello, ognuno resta del proprio parere»: si tratta di espressioni pregiudizievoli che denotano chiusura e incapacità di arricchirsi attraverso il dialogo perché l’altro diventa solo un elemento di disturbo e non di crescita. Sono momenti che mi ritrovo a osservare e che vivo con estremo disagio, tacendo il più delle volte.

Questo può accadere anche tra persone istruite, fra persone di una certa familiarizzazione alla cultura o forse non nel significato autentico della «cultura» che Georg Simmel, filosofo della modernità, riconosce, «Erkennte», come «incontro»: la cultura non è un semplice possesso di contenuti del sapere, ma un sapere penetrato «nella vitalità dello sviluppo soggettivo dell’individuo e la cui energia spirituale trova la concretezza in una cerchia quanto possibile vasta e sempre più estendentesi di contenuti ricchi di valore», in altre parole essa è «meglio definita come incontro e questi è ben riuscito quando la persona viene non soltanto divertita ma anche sfidata, non soltanto istruita ma anche potenziata, impara delle nozioni ma diventa anche molto più consapevole e più raffinata, grazie a ciò che apprende ed esperisce nell’entrare in rapporto coi prodotti dell’attività intellettuale ed estetica di altri».

In altre parole, dietro la fenomenologia della cultura si possono celare uomini frustrati, insoddisfatti del proprio «esserci», carenti di affettività, incapaci di ammettere l’errore. Ebbene, la cultura è un percorso che conduce all’anima. Ricercarla è vitale, sebbene raggiungerla risulti arduo, senonché impossibile. È rilevante provarci. Sempre. Per conoscersi e riconoscersi nei propri limiti.

In definitiva, nell’abisso del non incontro, della non cultura, dell’alienazione del soggetto nella non accettazione del diverso, il telos è quello di educare al dialogo e finanche «educare alla vita», a stimare la vita, la persona nel rispetto delle differenze individuali, dei momenti che contraddistinguono l’interazione umana, il tempo della vita: silenzio, ascolto. Tutti hanno il diritto di parlare, giusto, ma non tutti possono pretendere di essere ascoltati se non sono consapevoli di chi sono e a chi si rivolgono.

L’omologazione annulla le differenze e questo non è un bene, significa in altre parole, non essere avvezzi al paradigma della ragione, della «filosofia della coscienza» nonché alla «filosofia del linguaggio», o per meglio dire, dell’«agire comunicativo» (Habermas). L’attore sociale non deve indossare solo maschere ma è legittimamente chiamato a saper parlare e a interagire con l’altro. Con libertà e responsabilità. Riconoscenza. Gratitudine. Detto altrimenti, Etica.

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