Chi è che nella propria vita professionale non ha mai temuto di essere un possibile bersaglio di accertamenti da Indagini finanziarie da parte dell’Amministrazione finanziaria comunemente detti «accertamenti bancari»? Si tratta di uno strumento accertativo tra i più insidiosi per i contribuenti attraverso il quale l’Agenzia delle entrate ha la possibilità di ricostruire la capacità reddituale del contribuente, sia esso persona fisica o impresa, interfacciandola con le movimentazioni di conto corrente tracciati dal correntista sia in entrata che in uscita.
Nel corso degli anni le indagini finanziarie esperibili dall’Amministrazione finanziaria hanno subito un processo evolutivo molto travagliato per il contribuente sia a livello normativo che giurisprudenziale; tale potere di indagine è stato sempre più forte ed incisivo in favore dell’ufficio impositore arrivando ad imporre agli intermediari finanziari obblighi di automatica e periodica comunicazione aventi ad oggetto le diverse informazioni riferite ai rapporti intrattenuti con la propria clientela. Per cui, oggi, il cosiddetto «segreto bancario» è un lontano ricordo avendo la normativa di riferimento avvallato dinamiche di assoluta trasparenza sui dati bancari in favore dell’Agenzia delle entrate che può accedere in qualsiasi momento alle informazioni di conto corrente fornitegli dagli istituti di credito. Dunque, i versamenti rilevati sul conto corrente del contribuente vengono considerati «materia imponibile» se questi non dimostra che ne ha tenuto conto nella determinazione del reddito soggetto ad imposta o che, diversamente, gli stessi, non hanno alcuna rilevanza fiscale. Anche i prelevamenti vengono considerati ricavi qualora il contribuente sottoposto ad indagine finanziaria non indica il soggetto beneficiario. In sostanza, sia la normativa di riferimento sia la stessa giurisprudenza di Cassazione registrata negli ultimi dieci anni (ex pluris: Cass, Sen.3345/2022) ha legittimato la possibilità per l’A.F. di potersi avvalere di una presunzione legale relativa in considerazione della quale l’onere della prova in capo all’ufficio impositore si ritiene soddisfatto dai soli dati e dagli elementi desunti dalle movimentazioni del conto corrente. Spetta poi al contribuente-correntista fornire la prova contraria riferita ad ogni singola operazione di conto corrente contestata; prova che, deve essere in grado di neutralizzare la presunzione di legittimità vantata dall’ufficio. Questo lo scenario normativo e giurisprudenziale riferito alla articolazione della prova in caso di rettifiche o accertamenti rinvenienti da indagini finanziarie.
Senonché, la L. n° 130/2022 in tema di «Riforma del Processo Tributario» recentemente ha disposto una interessante «novella» contenuta nell’art. 7, comma 5 bis del D.lgs.n°546/1992 che potrebbe cambiare le carte in tavola in favore del contribuente. In altre parole, la novella disposta dalla L. n° 130/2022, per la prima volta, disciplina espressamente e con una norma ad hoc l’articolazione della prova nel processo tributario richiamando puntualmente i criteri di valutazione che il Giudice tributario deve porre alla base della propria decisione. Non solo, l’art. 7, comma 5 bis del D. lgs. n° 546/1992 prevede espressamente che: «L’Amministrazione finanziaria prova in giudizio le violazioni contestate con l’ atto impugnato». Si tratta, a mio avviso, di una previsione normativa vigente dal 16 settembre 2022 (data di entrata in vigore della L. n° 130/2022 sulla Riforma del Processo Tributario) molto interessante che non mancherà di avere ripercussioni in sede di contenzioso tributario. In particolare, la novella può cambiare totalmente lo scenario delle presunzioni vantate dall’ufficio impositore in concomitanza degli accertamenti da indagini finanziarie. In pratica, tutto quello che l’Amministrazione finanziaria contesterà nell’avviso di accertamento in termini di violazione tributaria, dopo il 16 settembre 2022, dovrà essere provato in giudizio. In mancanza, il Giudice tributario non potrà che disporre l’annullamento dell’avviso di accertamento impugnato.
Pertanto, anche con riferimento agli accertamenti cosiddetti «bancari» la presunzione di legittimità vantata dall’ufficio circa la «rilevanza fiscale» di operazioni di conto corrente (prelevamenti o versamenti) necessiterà, in sede giudiziale, inevitabilmente di elementi di prova chiari e circostanziati non essendo più sufficiente un qualunque elemento di prova per rendere attendibile la pretesa dell’ufficio. In caso di assolvimento della prova da parte dell’Amministrazione finanziaria spetterà al contribuente la prova contraria ex art. 2697 comma 2 cc.
La novella, a mio avviso, sicuramente ha posto le basi normative per un interessante cambiamento nelle dinamiche che regolano l’articolazione della prova in caso di accertamenti da indagini finanziarie. Infatti, non è da escludere che il nuovo scenario normativo (art. 7, comma 5 bis del D. lgs. n° 546/1992) disposto dalla legge sulla Riforma del Processo Tributario possa modificare anche l’orientamento giurisprudenziale della stessa Corte di Cassazione che negli ultimi anni ha fortemente penalizzato i contribuenti chiamati ad assolvere ad un onere della prova contraria senza possibilità di appello.