Tra i documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Bari, inerenti al periodo della persecuzione antisemita, spiccano le liste dei cittadini ebrei residenti in Terra di Bari. Nei primi elenchi redatti dagli organi di Pubblica Sicurezza, compare il nome di Alberto Schwarz, nato a Milano nel 1908, impiegato dal febbraio 1938 come ingegnere industriale nello stabilimento Anic (Azienda nazionale idrogenazione combustibili) di Bari: svolge, in realtà, il ruolo di interprete tecnico tra gli ingegneri italiani e i consulenti tedeschi. Come egli stesso riferisce, sarà costretto a compilare un questionario e a riferire notizie riguardanti la sua provenienza: nel novembre 1938, infatti, la Questura di Bari aprirà un fascicolo su di lui nel quale sarà schedato come «ebreo di razza e di religione», insieme a sua moglie, Maria Andreina Leppmann, nata a Berlino nel 1913. Con una lettera, recapitata pochi giorni prima di Natale 1938, Schwarz verrà licenziato dal direttore generale dell’Anic a causa delle sue origini.
Nel gennaio ‘39, pertanto, si rileva che l’uomo ha lasciato definitivamente il capoluogo pugliese per trasferirsi a Milano, dove – si legge nelle carte manoscritte – prenderà alloggio in via Arduino n. 5. Li rimarrà per un anno, e poi, con la moglie partirà alla volta degli Stati Uniti, a bordo del transatlantico «Conte di Savoia». Basterebbero solo queste vicende, così sommariamente riscontrate nei documenti dell’Archivio barese, a giustificare la lettura di «Mio amatissimo fratello...». Fuga da Milano 1943-1945, a cura di Sandro Gerbi (Edizioni Casagrande, Bellinzona 2022, pp. 155, 22 euro). Tali racconti, tuttavia, non costituiscono che una minima parte dell’ampio spaccato di vita raccontato nel volume. Si tratta, in realtà, di una raccolta di lettere scritte da Willy Schwarz e indirizzate a suo fratello minore Alberto, che in quelle intime pagine viene chiamato col suo primo nome Franco. Non siamo di fronte, pertanto, a un classico epistolario a due voci (non compaiono mai le risposte), ma a una ristretta antologia: il giornalista e studioso di storia contemporanea Gerbi ha voluto dare alle stampe solo quei lunghi e appassionanti resoconti di un periodo circoscritto, quello che va dall’autunno del ‘43 alla primavera del 1945. Quattro lunghe lettere in cui Willy, medico appassionato di storia del cristianesimo antico e di antroposofia steineriana, descrive al fratello emigrato negli Stati Uniti quanto accade nel vecchio Continente e le condizioni in cui versano i membri della propria famiglia. Una famiglia di ebrei milanesi di origini ungheresi (per parte di padre) e tedesche (dalla parte materna), costretta ad affrontare la campagna persecutoria antisemita e le mortificazioni della clandestinità e dei tentativi di espatrio.
Drammatico il racconto dell’errare degli anziani genitori alla ricerca di un rifugio sicuro: la Svizzera rappresentava per molti ebrei lombardi la salvezza, ma il fallito tentativo di accedervi costituirà invece la rovina del padre Gustav, morto suicida il giorno dopo esser stato respinto alla frontiera. Si racconta, inoltre, della generosità di molte persone comuni, nonché di alcuni religiosi: lo stesso Willy, prima di trovare rifugio a Ginevra, trascorrerà alcuni mesi nel Seminario arcivescovile di Venegono Inferiore. Scavando negli archivi di famiglia (le carte degli Schwarz non sono ancora raccolte in unico fondo) e in molti altri archivi statali, comunali, parrocchiali, Gerbi entra nel vivo di quei giorni attraverso gli occhi di un perseguitato che vive sulla propria pelle le ingiustizie della Storia. Leggendo le epistole, tuttavia, si intende il reale senso di quelle pagine: come ammette lo stesso autore, Franco in molti casi è già a conoscenza di alcuni degli episodi raccontati. Appare chiaro, allora, l’intento di scrivere per restare ancorati alla realtà, per guardare con lucidità gli eventi che hanno sconvolto le proprie esistenze, di lasciare impresse sensazioni, emozioni che, una volta superata quella fase, terminata cioè la guerra, sarà meglio dimenticare.
Così come accade al deportato Primo Levi, che avverte l’esigenza di recitare e spiegare il canto dantesco di Ulisse al suo più giovane compagno di campo, la narrazione si rivela anche per Schwarz l’unico strumento per tenere vivi e accesi gli ultimi stralci della propria umanità, mortificata e umiliata, ma mai definitivamente sconfitta.