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Brindisi, ecco come i boss della Scu si spartivano lo spaccio a San Vito

Brindisi, ecco come i boss della Scu si spartivano lo spaccio a San Vito

 
Stefania De Cristofaro

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Stefania De Cristofaro

Brindisi, ecco come i boss della Scu si spartivano lo spaccio a San Vito

Nei due interrogatori Romano ha rivelato alla Dda i tentativi, poi falliti, tramite lettere e intermediari, di indurre a più miti consigli Lamendola

Venerdì 28 Luglio 2023, 13:34

Scambio di lettere secondo le regole della diplomazia in chiave mafiosa con l’obiettivo - poi fallito - di prolungare la pax tra i due gruppi nella gestione del traffico di droga, stabilendo una spartizione del territorio.

A riferire di quel tentativo e delle successive minacce consegnate tramite terze persone, è stato il collaboratore di giustizia Andrea Romano, 37 anni, capo del gruppo di stampo mafioso con base nel quartiere Sant’Elia di Brindisi, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Cosimo Tedesco, avvenuto il primo novembre 2014, a seguito di una lite avvenuta alcune ore prima, durante la festa di Halloween.

Romano ha raccontato ai magistrati della Dda di Lecce, di aver scritto a Gianluca Lamendola, 34 anni, nato a Mesagne, ma residente a Brindisi, per il quale i pm dell’Antimafia salentina avevano chiesto e ottenuto la custodia cautelare in carcere nell’inchiesta «The Wolf», sulla Sacra corona unita e sul gruppo Lamendola-Cantanna. Gruppo ritenuto la diramazione sul territorio di San Vito dei Normanni della vecchia guardia della Scu, avente come referenti Antonio Vitale, alias il Marocchino, Massimo Pasimeni detto Piccolo dente e Daniele Vicentino, chiamato il Professore.

Lamendola, considerato figura di primo piano del gruppo, nipote di Carlo Cantanna, affiliato Scu, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Tommaso Marseglia, avvenuto il 22 luglio 2001 a San Vito Dei Normanni, è accusato di essere «capo, promotore e organizzatore del sodalizio». E a tutt’oggi non è assicurato alla giustizia perché è riuscito a sottrarsi al blitz eseguito il 18 luglio scorso dai carabinieri. È latitante assieme al padre Cosimo, di 51 anni, ed entrambi sono ricercati anche all’estero. Nella richiesta di arresto del pm, riportata a stralci nell’ordinanza di custodia firmata dal gip del tribunale di Lecce, si fa riferimento al contenuto di due interrogatori resi da Romano: il primo il 22 gennaio 2021 e l’altro il 10 marzo successivo, durante i quali ha «narrato l’ evoluzione criminosa avuta da Lamendola». Con la precisazione che il collaboratore, «è stato valutato intrinsecamente credibile, in quanto la posizione verticistica assunta consente al dichiarante di possedere un bagaglio conoscitivo di elevatissimo livello per conoscenza diretta dei fatti». E ancora, il gip evidenzia: «L’esposizione delle dinamiche associative dallo stesso illustrate non può che ritenersi fondata e veritiera, anche in ragione dei numerosi riscontri estrinseci via via assunti nel corso dei procedimenti che lo riguardano».

Il racconto di Romano parte da una lettera che Giuseppe Prete, una delle persone più vicine al brindisino stando ai verbali, gli scrisse «dolendosi del comportamento disinvolto» assunto nel traffico di sostanze stupefacenti da Lamendola. Condotte che «confliggevano con i loro interessi» e per questo Prete avrebbe pregato Romano di intervenire. Romano, a sua volta, ha detto di aver scritto una missiva a Lamendola «avvertendolo che, scarcerato, non poteva pensare di riappropriarsi a suo piacimento del territorio di San Vito che lui ormai aveva occupato con i suoi sodali».

Il 34enne venne scarcerato il 2 novembre 2020, ma secondo quanto contestato dalla Dda avrebbe comunque continuato a gestire dal carcere tutte le attività dell’associazione «come se - sostiene il gip - la limitazione della libertà personale non esistesse o comunque avesse una portata limitante non certo assoluta». La riacquistata libertà indusse Lamendola a rivendicare il ruolo di capo - peraltro mai contestato - pretendendo rispetto assoluto dai sodali, risposta immediata alle proprie direttive e sudditanza totale.

«Per un breve periodo - stando a quanto si legge nel provvedimento di arresto - si creò un equilibrio nella coesistenza dei due clan», quello di Romano da un lato e quello di Lamendola dall’altro. Ma l’equilibrio si rivelò instabile perché Lamendola incrinò la pax a causa della «tendenza ad assumere sempre maggiori spazi di autonomia».

Romano, a questo punto, fece un ulteriore passo e tramite una terza persona, «parlò telefonicamente con Brian Maggi che era in buoni rapporti con Lamendola affinché intervenisse» e questi lo «rassicurò che lo avrebbe fatto, avvisandolo di ridimensionarsi, altrimenti lo avrebbe ucciso». Non furono usate, quindi, mezze parole.

Romano aveva preso tra i suoi affiliati anche Francesco, detto Ciccio, Turrisi, antagonista di Lamendola. Ma «quando Romano lo mise da parte perché inaffidabile in quanto cocainomane, Lamendola lo aggredì per affermare la sua supremazie nello spaccio», ha scritto il gip. «Turrisi, infatti, agiva autonomamente a San Vito, ed era affiliato a Carlo Cantanna. Per tali ragioni, sebbene sullo stesso territorio operasse anche Francesco Campana, Lamendola dichiarò guerra la clan Turrisi, cercando di uccidere due componenti del gruppo il 14 ottobre 2020, ovvero Luciano Tedesco e Domenico Urgese», ha aggiunto il gip. Conflitto culminato con il sequestro di quest’ultimo il 6 maggio dell’anno successivo.

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