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L’ex boss di Montescaglioso in carcere diventa un artista

 
L’ex boss di Montescaglioso in carcere diventa un artista

Lunedì 21 Ottobre 2013, 10:16

03 Febbraio 2016, 03:47

di Fabio Amendolara

POTENZA - Paesaggi surreali, navi a remi volanti, fiori. Colori decisi. Una quindicina di anni dopo il suo arresto Pierdonato Zito, indicato per anni dai magistrati antimafia come il boss della mala di Montescaglioso, ha lasciato definitivamente il fucile per impugnare il pennello. Dipinge. E le sue tele sono in mostra sul blog «Le urla del silenzio».

Ora è detenuto nel carcere di Voghera, dove sta scontando l'ergastolo per l'omicidio di suo cugino Gianfranco Bitondo. Fino a qualche anno fa però era detenuto a Rebibbia, nel braccio speciale: quello del 41 bis (il regime di carcere duro dell'ordinamento penitenziario). E i suoi problemi con la giustizia non sono terminati: è imputato nel processo per la «mattanza» di Montescaglioso. Dieci omicidi. Cinque imputati al clan Zito. E cinque ai suoi avversari. Erano anni difficili quelli per Montescaglioso. Dopo l'arresto dei fratelli Modeo in una villa bunker nelle campagne montesi, fu necessaria anche una visita della commissione parlamentare antimafia. Zito, secondo i magistrati della Direzione distrettuale antimafia, era diventato un boss. E si contendeva il territorio con Alessandro Bozza, arrivato a Montescaglioso da Taranto con i fratelli Modeo. Ora, oltre ai quadri, manda al blog anche dei pensieri. «Le mie prime trasgressioni - scrive Zito - risalgono agli anni '80. Un bambino che nasceva in quegli anni, nasceva già con 20 milioni di lire di debito pubblico sulle sue spalle. Mentre l’Italia si sedeva al tavolo tra le otto nazioni più industrializzate del mondo, la Basilicata restava e resta un regione povera di un Paese ricco. Vivere quella sensazione di non essere in condizione di poter condurre un’esistenza dignitosa, all’altezza delle proprie aspettative, si è presto tasformato in voglia di cambiare le regole del gioco». E così è cominciata la sua carriera criminale. Racconta Zito: «Si cominciano a fare azioni dal sapore trasgressivo, complice la giovane età e tante concause che faranno sì che piano piano si arrivi similmente ad assomigliare ai fili di una grossa fune che gradualmente si sfilacciavano per rompersi del tutto e quindi la perdita totale della libertà. Perciò un po’ il non volere accettare quei lavori mal retribuiti o peggio una situazione di mancanza di lavoro, quel lavoro che dovrebbe dare dignità all’uomo, che resta ancora il problema dei problemi. Qul timore che si fa sempre più forte di non potere vivere come tutti, finiscono per spingere all’azione trasgressiva». Il boss si giustifica così. «La necessità - sostiene - diventa più potente delle regole, delle leggi stesse. E si finisce per perdere quel bene prezioso che è la propria libertà». Ora quei pochi momenti di libertà che gli vengono concessi Zito li passa a dipingere, senza rivolgere troppi pensieri al futuro, consapevole che sul suo casellario giudiziario c'è scritto a caratteri cubitali «fine pena mai».
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