L’auto si ferma oltre un cancello malmesso, piegato dal tempo e dalla ruggine. «Ciao ragazzi, c’è Daniel?». Silenzio. «Ho un appuntamento con lui». I due si guardano, poi sorridono e indicano la strada. Bastano pochi passi per entrare in un luogo che sembra rimasto fermo a vent’anni fa.
Il campo rom di Japigia è così: roulotte allineate alla meglio, piccole casette costruite con materiali di fortuna, fili elettrici che corrono bassi. Le donne trasportano taniche d’acqua, i bambini si inseguono tra la polvere. Ma qualcosa è cambiato: c’è un campetto da calcio.
«Abbiamo montato le reti poco tempo fa», spiega Daniel Tomescu, capo della comunità. «Serve a tenere i piccoli al sicuro, lontani dalla strada». Sono venticinque. Un centinaio, invece, tra uomini e donne. «Un tempo eravamo quasi quattrocento. Poi, piano piano, le cose sono cambiate». Una tendenza molto diffusa: i giovani abbandonano i villaggi e cercano fortuna. «I ragazzi, superati i diciotto anni, vanno via. Cercano lavoro, una casa. Spesso anche fuori dall’Italia». Molti partono per il Nord Europa. Altri non tornano più. «Anche mia figlia non vive qui. Si è trasferita in Inghilterra, ha marito e figli. Non la vedo da anni». Daniel abbassa lo sguardo, poi cambia discorso. «Fa male, perché è lontana. Ogni partenza è un dolore. Ma capisco che il mondo è cambiato. I giovani non vogliono più una vita da nomadi. Hanno internet, vedono come vivono gli altri. Sanno che esistono altre possibilità». Così il campo si svuota, lentamente, senza rumore.
I Tomescu lasciarono la Romania alla fine degli anni Novanta, quando il razzismo contro i rom si fece più duro e la povertà insostenibile. Arrivarono a Bari insieme ad altre famiglie e, per anni, vissero sotto il ponte dello stadio San Nicola. «Eravamo nove famiglie. Un giorno incontrai Michele Emiliano. Mi promise che, se fosse diventato sindaco, ci avrebbe aiutati. E così fece». Nel 2005 l’amministrazione comunale attrezzò l’area di Japigia con bagni, luce ed elettricità. Da allora tra la comunità rom e le istituzioni cittadine esiste una sorta di patto non scritto. «Emiliano ci chiese una cosa sola: togliere i bambini dalla strada e mandarli a scuola. Abbiamo mantenuto la promessa. E continuiamo a farlo». Poi ammette: «I bambini ai semafori a chiedere l’elemosina erano tantissimi: Emiliano ha liberato questa città da una vergogna».
Negli anni, i rom avevano fondato anche la cooperativa «Artezian», impegnata nel facchinaggio, nel riciclo, nelle pulizie e nella pitturazione. Un tentativo concreto di integrazione e autonomia economica. «Dopo il Covid abbiamo dovuto chiudere. Troppi debiti. Ma ci inventeremo qualcos’altro. Qui non ci perdiamo d’animo».
Intanto si avvicina il Natale: «Sarà il 25 dicembre anche qui - dice sorridendo - ma con le nostre tradizioni». Ogni famiglia si sposta a turno nei vari alloggi, mangiando qualcosa in ogni abitazione visitata. Il piatto principale della festività è sicuramente il maiale allo spiedo. Insieme alla carne non può mancare il tradizionale pane di mais. «Le donne del campo preparano il panettone. È un modo per stare insieme, per sentirci comunità». Con un pensiero sempre a chi ha deciso di andare via: «Fino a diciotto anni sono tutti figli miei. Poi il mio compito finisce. Spero solo che, ovunque vadano, ricordino le loro radici e la loro storia».
















