BARI - Ottocento grammi di tritolo, potenti come venti granate da guerra, per riaffermare il predominio del clan Dambrosio sul territorio. Era da poco passata la mezzanotte del 5 marzo 2015. Teatro dell’attentato la sala giochi Green Table di Altamura. Quella bomba doveva dare un segnale e invece uccise una persona, il calciatore 27enne Domenico Martimucci, estraneo a qualsiasi contesto criminale, e ne ferì altre sei. A distanza di dieci anni, dopo che mandante ed esecutori materiali da tempo ormai scontano condanne definitive per quella che inizialmente fu qualificata dall’Antimafia come una strage, la giustizia è arrivata anche per gli ultimi due presunti complici: colui che avrebbe coordinato le fasi esecutive dell’attentato, l’ex collaboratore di giustizia 47enne Nicola Centonze (in carcere), e colui che diversi mesi prima avrebbe fornito l’esplosivo, il 50enne Nicola Laquale (agli arresti domiciliari).
Carabinieri e Dda hanno chiuso il cerchio su quella vicenda. La ricostruzione di ciò che avvenne la notte tra il 4 e il 5 marzo di dieci anni fa è ora tutta nero su bianco negli atti di indagine, in parte già cristallizzati in sentenze irrevocabili. Da tempo, ormai, il mandante dell’attentato, l’ex boss di Altamura Mario Dambrosio, all’epoca reggente del clan e poi collaboratore di giustizia, sta scontando una condanna a 30 anni di reclusione. In cella con condanne definitive anche i due esecutori materiali, cioè coloro che posizionarono il micidiale ordigno che uccise il giovane calciatore: Savino Berardi (20 anni in abbreviato) e Luciano Forte (18 anni).
Nicola Centonze, inizialmente coinvolto nell’inchiesta sull’attentato con l’accusa di spaccio di droga (e condannato per questo a 4 anni di reclusione), dal 2017 aveva deciso di collaborare con la giustizia, rivelando i segreti del clan e le «colpe» dei suoi ex compagni sodali, ma «dimenticando di raccontare il proprio coinvolgimento» nella vicenda del circolo Green, anzi prendendone le distanze. «Su questo siamo implacabili - ha detto il procuratore Roberto Rossi - chi collabora con la giustizia deve essere sincero e deve dire tutto». Per questo a Centonze, dopo aver scoperto che a coordinare le fasi operative dell’attentato, dando indicazioni a Berardi e Forte su come e dove posizionare la bomba, era stato proprio lui, è stato revocato nei mesi scorsi il programma di protezione. «Con i collaboratori si stringe un patto di fiducia, - ha detto la pm Antimafia Grazia Errede, che ha coordinato le indagini dei carabinieri - in questo caso tradito a monte». A Centonze ora la Dda contesta i reati di omicidio volontario e tentato plurimo omicidio, ad entrambi gli indagati la detenzione e il porto di materiale esplodente, con l’aggravane del metodo mafioso.
Il procuratore aggiunto Francesco Giannella, coordinatore della Dda, ha ricordato il «duplice obiettivo» di quell’attentato: «distruggere il locale per spostare l’attenzione dei clienti verso un altro circolo, gestito dal boss Mario D’Ambrosio e riaffermare davanti a tutta la cittadinanza il predominio del clan sul territorio». A conferma di questa ricostruzione e dei ruoli di tutti, ci sono le recenti dichiarazioni di alcuni «pentiti». Primo fra tutti Michele Loiudice, esponente di spicco dell’omonimo clan, rivale dei Dambrosio. Loiudice, detenuto per un periodo con Berardi, ne aveva raccolto le confidenze, scoprendo che a ricevere dal boss Dambrosio l’ordine di far esplodere la sala giochi era stato proprio Centonze, il quale poi a sua volta aveva ingaggiato manovalanza per portare a termine l’attentato. Poi ci sono le dichiarazioni di Forte, uno dei due esecutori materiali, per sua volontà mai entrato in un programma di protezione ma che, «per redenzione» secondo gli inquirenti, ha deciso dopo anni di raccontare tutto. Non lo avrebbe fatto prima per paura, rivelando anche che Centonze gli avrebbe detto di «buttare la bomba dentro», sintomo secondo la Dda della sua «spregiudicatezza». Infine, le dichiarazioni di Mario Dambrosio, che ha confermato di aver consegnato l’ordigno al 46enne.