BARI - Regione Puglia e tre presunte vittime di caporalato si sono costituite parti civili nell’udienza preliminare nei confronti di 14 persone, due presunti «caporali» e i titolari di dieci aziende agricole del Sudest Barese e della bassa murgia, coinvolte nell’indagine della Procura di Bari sullo sfruttamento di decine di braccianti agricoli.
Dei quattordici imputati per i quali la pm Grazia Errede ha chiesto il rinvio a giudizio per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, uno - titolare di una azienda agricola - ha chiesto il rito abbreviato. La sua posizione e quella degli altri 13 che potrebbero finire alla sbarra saranno discusse nella prossima udienza del 27 maggio.
I braccianti identificati dalle indagini dei carabinieri che sarebbero stati sfruttati nei campi e che, quindi, avrebbero potuto costituirsi parte civile chiedendo un risarcimento dei danni in caso di condanna sono 68, quasi tutti italiani, ma solo tre hanno deciso di farlo.
Stando alle accuse, i lavoratori avrebbero guadagnato meno di cinque euro all’ora per sette ore nei campi sotto il sole, senza la possibilità di riposarsi e lavorare in sicurezza. Le indagini hanno rivelato che gli imputati arruolavano i braccianti agricoli con annunci su Facebook e scambi di informazioni e documenti sulle chat private di WhatsApp, pagandoli poi in nero metà del dovuto e, per intimidirli e costringerli ad ubbidire, raccontavano di essere imparentati con i boss della camorra barese.
I fatti contestati risalgono al periodo compreso tra maggio e luglio 2021. Quasi un anno fa i due presunti «caporali», fornitori di mano d’opera a basso prezzo per la raccolta delle ciliegie e dell’uva, i baresi Maria De Villi e Vito Stefano De Mattia, sono stati arrestati. Le accuse riguardano anche i 12 titolari di dieci aziende agricole di Turi, Rutigliano, Acquaviva delle fonti e Cassano Murge. L’inchiesta, denominata «Caporalis» è partita dalla denuncia di una di loro (costituita parte civile) ed ha accertato che i lavoratori sarebbero stati pagati circa 4,60 euro l’ora (in nero, contro gli 11 euro l’ora previsti per legge) per lavorare in condizioni definite dagli stessi inquirenti «di sfruttamento». Il tutto approfittando «del loro stato di bisogno».
Dalle banche dati sono emersi i rapporti di impiego formalmente denunciati dai datori di lavoro nei periodi corrispondenti a quelli indicati nei registri. In tutti i casi sono state individuate difformità tra il numero delle giornate di lavoro denunciate all’Inps e quelle effettivamente svolte e annotate da De Villi e De Mattia e sono state appurate condizioni di lavoro in violazione delle norme previste dal Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.