BARI - «Mi trovai di fronte uno scheletrino rannicchiato e con le gambe ripiegate, perché Eleonora rimaneva costantemente seduta su un passeggino che era anche il suo letto durante la notte, un’immagine che mi richiamò alla mente quelle riportateci dai lager nazisti e che non potrò mai dimenticare». Sono trascorsi 20 anni (era il 7 gennaio 2005), ma è come se fosse accaduto ieri. L’allora pm Emanuele De Maria è il magistrato che ha indagato sulla morte della bambina deceduta di fame e stenti a soli 16 mesi. Eleonora viveva ad Enziteto (oggi San Pio) nel degrado più assoluto. Non amata da chi l’aveva messa al mondo, morì nel tragitto verso l’ospedale San Paolo quando ormai era troppo tardi.
«Il fascicolo fu aperto inizialmente per maltrattamenti su minori - ricorda il magistrato oggi in pensione - ma poi gli indagati furono condannati per omicidio volontario. Bastò guardare quel corpicino per capire quanto aveva sofferto e che dietro c’era altro. Eleonora era denutrita, pesava molto meno del peso che sarebbe stato normale alla sua età, aveva una serie di crosticine per lo più tondeggianti solo su un lato del volto. Quelle piccole lesioni, inizialmente, sembravano poter essere dovute allo spegnimento di sigarette, ma dalle indagini, invece, emerse che erano state causate dalle scarpe che le venivano lanciate addosso quando, durante notte, piangeva e si lamentava a causa delle fratture scomposte che aveva ad un braccio. Dopo averla afferrata la facevano roteare in alto, in una sorta di gioco perverso che gli indagati chiamavano “del 45 giri”, cioè come un disco che girava». Devastante il quadro che emerge un po’ alla volta.
«All’inizio i due indagati negavano ogni responsabilità e si sostenevano a vicenda, ma nei giorni che seguirono furono interrogati più volte e messi anche a confronto tra loro. Quando emersero le prime contraddizioni nel loro racconto, iniziarono ad accusarsi reciprocamente e a sminuire le proprie responsabilità ma, poi, finirono per confessare».
Perché tutta questa cattiveria? «Dalle indagini emerse che la madre e il convivente si erano convinti che la piccola fosse posseduta dal diavolo, perché alla loro presenza piangeva continuamente. Ricordo che avevano persino improvvisato delle croci realizzate con le mollette da bucato». Una morte tremenda quella di Eleonora. «Non l’effetto di un singolo atto estemporaneo, ma di infinite sofferenze protrattesi nel tempo». Dopo l’ospedale San Paolo, De Maria con gli agenti della Squadra mobile effettua un sopralluogo nella casa dell’orrore di San Pio. «Era un locale fatiscente al piano stradale adibito ad abitazione. Questa famiglia viveva nel degrado più assoluto. Ricordo ancora che utilizzavano bottiglie di acqua calda per riscaldare il letto per la notte. Il patrigno faceva il posteggiatore abusivo nei pressi del lungomare, vicino alla ex Procura circondariale dove prestavo servizio. Gli altri figli non erano trascurati come Eleonora la cui breve esistenza è stata segnata da un trattamento atroce “deliberato” a causa di superstizione e gelosia». C’è stato un momento in cui Eleonora poteva salvarsi. Ad un certo punto, infatti, viene “affidata” bonariamente (cioè, senza un provvedimento giudiziario) ad un’altra famiglia. «Le attenzioni, l’amore e l’affetto della nuova coppia infastidì molto la mamma naturale e il suo compagno. Le due donne s’incontrano sull’autobus e lì nasce una discussione quando spunta l’ipotesi di un affido vero».
Immediatamente dopo, di sera, il patrigno di Eleonora si presenta a casa dei potenziali affidatari pretendendo che la piccola, che dormiva finalmente tranquilla, tornasse nella casa dove non mangiava e veniva maltrattata. «Quel gesto segnò la sorte di Eleonora», riflette De Maria, magistrato di altri tempi che non ha mai cercato il clamore mediatico e che, a distanza di 20 anni, pur di fronte a tanta crudeltà, riflette a 360 gradi sul contesto. «La sensazione, allora, fu di trovarsi di fronte a un mondo a parte, a una dimensione lontana anni luce da quella che vivevo tutti i giorni. È troppo facile giudicare vivendo in una casa riscaldata e con tutti i comfort». La vicenda ebbe un grande clamore, rimbalzando su tutti i media. «In ufficio - prosegue De Maria - arrivarono lettere. Ricordo che in una di queste una neo mamma, ringraziandoci per il lavoro che stavamo facendo, ci comunicava che aveva deciso di chiamare sua figlia Eleonora».
A distanza di 20 anni, altrettanto clamore ha suscitato un’altra tragica storia, quella di Angelo, neonato ritrovato senza vita il 2 gennaio nella culla termica della chiesa San Giovanni Battista nel quartiere Poggiofranco. Qui, al contrario della mamma di Eleonora, chi lo ha messo al mondo, voleva salvarlo. «E, di positivo, c’è anche il tentativo di una parrocchia che ha cercato di fare qualcosa predisponendo una culla termica. Va anche detto, però, che il pubblico non può abdicare al proprio ruolo su questioni così delicate. Per evitare altre simili tragedie e consentire a chi compie la scelta dolorosissima di non tenere un figlio, sono prioritariamente le istituzioni pubbliche che devono offrire un’alternativa all’aborto o alla soppressione».
Dalla morte di Eleonora a quella di Angelo sono trascorsi 20 anni. In entrambe qualcosa non ha funzionato. «Da un punto di vista sociale - conclude De Maria - c’è da chiedersi se la città non ha nulla da rimproverarsi, se ha fatto tutto ciò che avrebbe potuto fare per evitare entrambe le tragedie. Ricordo che già molti anni fa, a Milano, i servizi sociali (non sotto organico, va detto), dopo ogni nascita venivano informati dall’Ufficio Anagrafe e si recavano personalmente nell’abitazione del neonato per verificare le condizioni in cui sarebbe stato allevato il bambino. Se c’erano problemi o bisogno di aiuto, partiva la segnalazione. Purtroppo, però, i servizi sociali molto spesso vengono visti come un costo e non, invece, come una risorsa e un investimento per il futuro. Ci occupiamo di minori quando ormai è troppo tardi, magari dopo che hanno iniziano a commettere reati. Occorre, piuttosto, investire e fare in modo che gli adolescenti coltivino interessi e abbiano degli obiettivi, favorendo, per esempio le attività sportive e la socialità».