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Migranti vittime di abusi , «Superare le loro diffidenze per riuscire ad aiutarli»

 
Barbara Minafra

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Barbara Minafra

Migranti vittime di abusi , «Superare le loro diffidenze per riuscire ad aiutarli»

«Medicina sartoriale» è il corso dell'ateneo di Bari su come gestire le relazioni medico-paziente tenendo conto dei principi culturali degli stranieri

Martedì 30 Maggio 2023, 12:41

BARI - «Servirebbe una medicina sartoriale». Così il professor Biagio Solarino del Dipartimento Interdisciplinare di Medicina ha spiegato il senso del corso di formazione sulla «Violenza transculturale» promosso dalla Scuola di Medicina dell’Università di Bari per operare un «decentramento culturale» e facilitare ascolto e comprensione di persone con modelli culturali e comportamentali differenti da quelli ai quali siamo abituati. Saper gestire le relazioni medico-paziente tenendo conto di principi culturali diversi, senza metterli in contrapposizione, può qualificare l’assistenza soprattutto in caso di vittime di abusi psicologici e fisici.

Il secondo appuntamento del corso Uniba, focalizzato sulla violenza sui minori e sulle donne, con particolare riguardo agli aspetti psicologici, è stato moderato dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Bari Ferruccio De Salvatore. L’ultimo incontro, il 19 giugno, sarà sugli interventi e le buone prassi nella presa in carico di donne e minori vittime di violenza e di tratta. Il prof. Solarino, coordinatore scientifico del corso, sulla base dell’esperienza clinica, della medicina legale e di centinaia di consulenze, mette in luce il tema della bioetica transculturale, al netto della presenza di mediatori culturali durante le visite.

Molti immigrati, pur avendo bisogno di cure, hanno difficoltà a farsi visitare.

«Ci sono questioni di bioetica transculturale rispetto alle quali bisognerebbe chiedersi se salute e malattia siano veramente categorie valide per qualsiasi tipo di società, perché di fatto ogni comunità ha la sua cultura che può contrastare con l’idea che invece ne ha il popolo che li ospita. Lo scontro, talvolta, è anche con un modello relazionale che dipende dalla normativa. Per fare un intervento necessitiamo del consenso informato e libero del paziente. Molte volte parliamo con donne che non hanno neanche la possibilità di parlare dei loro problemi di salute nelle comunità di appartenenza. Immaginiamoci cosa possa significare investirle della responsabilità di fornirci un valido consenso, al di là delle difficoltà pratiche di spiegare loro cosa significhi la cura proposta o la burocrazia legata al trattamento. Quelle che per noi sono cose “normali”, le dobbiamo traslare attraverso una targhettizzazione dell’informazione da dare al paziente che tenga conto della sua identità o della sua provenienza culturale con un’operazione sartoriale, nel massimo rispetto della liberà individuale ma anche del rapporto istituzioni-immigrati».

Arrivano in ospedale con segni di violenza fisica talvolta molto pesanti e con traumi spesso invisibili.

«Rispetto al carico di immigrati che arriva in Italia vediamo pochissime mutilazioni genitali femminili ma le vittime, se non in casi estremi in cui hanno grosse complicanze fisiche, tendono a non mostrare il danno subito. Così gli uomini, che magari hanno subito torture riportando pesanti traumatismi, ma hanno difficoltà a farsi visitare quando per noi sarebbe normale. Pur venendo da noi nel loro assoluto interesse, faticano a farsi curare».

Le visite, quindi, richiedono competenze altre rispetto a quelle tradizionalmente attribuite a un medico.

«L’approccio deve essere anche culturale. A volte visitiamo vittime di violenza sessuale che tendono comunque a nasconderla. Mi dirà che anche molte donne italiane tendono a non dire nulla, a nascondere l’abuso, ma le immigrate scontano un pregiudizio, un’etichetta che è già stata data loro: una straniera per strada subito è considerata una prostituta. La nuova violenza a cui spesso le sottoponiamo, come ho letto in un libro, è il considerarle diverse. Il paradosso che viviamo in ospedale è che ci approcciamo a loro esattamente come facciamo con tutti gli altri perché ovviamente per noi la salute non ha etichette, colore o provenienze. Eppure ci troviamo davanti a una reticenza, una riluttanza, un’inibizione paradossalmente provocata dal non capire le loro ritrosie».

Il corso va oltre il concetto di violenza e mette in evidenza come la cura non sempre è la strada da intraprendere.

«Anche non rispettare la libertà individuale di chi visitiamo può essere una violenza. Se un paziente non vuole farsi visitare, magari perché ha una cultura del corpo diversa dalla nostra, bisogna fermarsi, anche se la visita tutelerebbe la vittima da un punto di vista giuridico. È importante per noi medici formarci e comprendere le motivazioni profonde, e legittime, che portano a respingere i nostri trattamenti. Per questo è importante parlare di bioetica transculturale, della necessità di fare una medicina sartoriale adatta a questi pazienti». 

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