BARI - «La condizione di lavoro all'interno del servizio pubblico è disastrosa. Il servizio pubblico è morto, non esiste più. Perché abbiamo esternalizzato i servizi, ridotto i posti letto, chiuso gli ospedali. La cultura dominante all'interno delle organizzazioni sanitarie non è più quella medica, che c'era un tempo, ma aziendale e imprenditoriale. Che non ha affiancato la cultura medica, l'ha soppiantata. Noi medici siamo stati ridotti ad essere prestazionisti, dei tecnici, piccoli ingranaggi di un sistema che non controlliamo, con un mandato solo nella logica del mercato». Enza Abbinante, dirigente medico del servizio sanitario pubblico Asl Bari è tra i testimoni ai quali Cgil Puglia e Spi Puglia ha dato voce durante la manifestazione di venerdì in piazza. Un grido di dolore toccante di un medico che non si sente più tale.
«Siamo lavoratori ma prima di tutto cittadini e quindi soggetti di diritto, come quello alla salute che ha valore costituzionale. Un tale diritto non può essere ostaggio del pareggio di bilancio. Avevamo l’orgoglio di lavorare nel sistema pubblico, oggi si è introiettato un linguaggio economico, per cui si parla di costi. Abbiamo accettato l'idea che la salute si riduce a prestazioni, che i livelli minimi di assistenza, che dovrebbero essere la base, sono un cielo da raggiungere. E se non lo fai, ti riducono i finanziamenti. Le liste di attesa non sono persone in carne e ossa, ma prestazioni. La salute è diventata spesa, non investimento. No, la logica non può essere quella del mercato. La salute pubblica non è solo un diritto, è uno strumento di democrazia e senza la salute non possiamo neanche rivendicare il nostro ruolo di cittadini».
«Questo in sintesi significa che non siamo parte di un progetto di cura magari condiviso in rete - continua la Abbinate -. In un ottica di resa economica il malato non esiste in quanto tale. E io sono arrabbiata, rassegnata, delusa come tutti i miei colleghi perché non riusciamo ad avere piena consapevolezza di quanto sta succedendo e meno che mai porre rimedio. Dobbiamo farci comunità di cura, altrimenti è finita».
«Invece siamo in costante stress lavorativo - confessa - in particolare il personale dell'emergenza-urgenza e Pronto soccorso. Per tamponare le necessità i colleghi sono costretti a prestare servizio in diversi ospedali. Un giorno in uno, il giorno dopo in un'altra sede, per coprire i turni. E per una situazione del genere quale soluzione ci viene proposta anche dal ministero? Di aumentare le risorse per gli straordinari. Questo a noi non va bene. I medici e tutto il personale sanitario non vuole lavorare di più, vuole lavorare meglio».
«Gli organici non sono sufficienti e il personale è costretto ad andare a scavalco - continua la dottoressa come un fiume in piena -. Con continui cambiamenti di reparto un giorno fai un turno nella tua unità operativa, il giorno dopo in un’altra, senza conoscere i pazienti. Questo significa aumentare il rischio di errore e ridurre la sicurezza della cura nei confronti dei pazienti. Il medico, o il personale sanitario in genere, si trova ad entrare in un reparto dove non conosce i colleghi, le prassi consolidate, i pazienti. Si riesce ad avere le informazioni fondamentali in dieci minuti durante il cambio turno. Per conoscere un paziente e la patologia non bastano dieci minuti. Tutto questo ci espone alle aggressioni che non sono giuste o legittime in alcun modo, ma sono atti comprensibili di persone per le quali è invece legittima la sfiducia che vomita su noi medici».