Un sovradosaggio anestetico somministrato nel corso di un intervento di liposuzione. Sarebbe stata questa la causa dell’arresto cardiaco che provocò il decesso, il 10 aprile 2020 in un poliambulatorio di Monopoli, della influencer biscegliese 37enne Alessia Ferrante.
Il chirurgo plastico che eseguì l’intervento, il dottor Francesco Reho, difeso dagli avvocati Roberto Eustachio Sisto e Italia Mendicini (Studio FPS) sarà processato per omicidio colposo. La gup Anna de Simone lo ha rinviato a giudizio «per aver cagionato la morte della paziente Alessia Ferrante, agendo in violazione dei doveri di prudenza, diligenza, perizia, nonché inosservanza dei protocolli sanitari su di lui gravanti quale esercente la professione medica di chirurgo plastico». Il processo inizierà il 5 giugno 2024. I famigliari della vittima, assistiti dagli avvocati Luigi Della Sala e Francesco Fabrizio, si sono costituiti parte civile.
Nel corso dell’udienza preliminare il giudice ha rigettato la richiesta di patteggiamento a un anno di reclusione «ritenendo non congrua, per la gravità dei fatti, la pena proposta» fanno sapere i legali della famiglia. Stando a quanto accertato dalla Procura, la donna si sarebbe dovuta sottoporre, in anestesia locale, ad un intervento di asportazione di tessuto adiposo dalle gambe. Immediatamente dopo la somministrazione del farmaco anestetico, la 37enne ha avvertito un malore. In passato si era sottoposta a diversi altri interventi di chirurgia plastica in altri studi medici, mentre l’ultimo, risalente all’ottobre 2019, era stato eseguito nello stesso poliambulatorio del dottor Reho.
Per accertare dinamica ed eventuali responsabilità la Procura, ipotizzando fin dal primo momento l’omicidio colposo a carico del chirurgo, anche come atto dovuto, ha disposto una serie di accurate verifiche e acquisizione di informazioni, tutte ora agli atti del processo.
Non soltanto accertamenti medico legali, autopsia e studio della documentazione sanitaria, ma ha anche fatto sequestrare telefono e pc dello studio medico. Nella ricostruzione accusatoria, infatti, alla sospetta imprudenza del professionista, si aggiungerebbe la circostanza che quell’intervento fu programmato in un periodo in cui le attività non urgenti erano state sospese per via della pandemia. La tesi degli inquirenti era che il poliambulatorio privato fosse rimasto aperto in pieno lockdown per eseguire interventi non urgenti nonostante le disposizioni del Governo per l’emergenza Covid. Una circostanza accertata analizzando il contenuto del computer della struttura su quali e quanti interventi fossero stati eseguiti nelle ultime settimane.
Dal telefono del dottore, invece, gli inquirenti hanno voluto verificare l’orario in cui furono chiamati i soccorsi dopo il malore della paziente, accertando che la richiesta di aiuto fu tempestiva. Fu lo stesso medico, ora imputato, a mettere immediatamente la struttura a disposizione degli investigatori per fare tutti gli accertamenti del caso. E quando fu sentito, raccontando la sua versione dei fatti, si disse «particolarmente dispiaciuto - dichiarò dopo il decesso - perché con la donna c’era un anche un rapporto di collaborazione professionale, in quanto lei era una promoter delle attività dell’ambulatorio».
Sulla vicenda intervengono gli avvocati Roberto Sisto e Italia Mendicini, legali del professionista.
"La presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva (art.27 della Costituzione), recentemente riaffermata dal Dlgs n. 188/2021, non può essere un’opinione" scrivono i legali.
"Dare spazio mediatico-punitivo alla semplice verifica dibattimentale in ordine alla eventuale responsabilità dell'imputato -soprattutto per reati in cui I’evento è contro l’intenzione- significa violarla pesantemente oltre che inutilmente. Nel caso di specie poi, risulta colpita ingiustamente l’immagine di un professionista, e sempre in attesa che sia verificato ogni addebito a suo carico. Il Dott. Francesco Reho, sin dall’inizio di questa sfortunata vicenda, ha osservato, per rispetto di chi non c’è più (e non di certo per sua volontà), un pacato e liturgico silenzio. Evidentemente non è bastato per ottenere analogo atteggiamento, in attesa delle statuizioni dei giudici. Il contraddittorio fra le parti consentirà di valutare le cause di quanto accaduto e il grado di attenzione posto in essere dal professìonista. Certo è, e va puntualizzato in replica e per amore di verità, che gli esami clinici svolti dai consulenti del pubblico ministero hanno accertato che il tutto si è verificato nell’ambito di un “utilizzo cronico di cocaina verosimilmente alla simultanea assunzione di alcol” da parte della paziente, elemento ad avviso della difesa assai rilevante - concludono gli avvocati - per come poi gli eventi si sono drammaticamente evoluti".