L’immagine sorridente di Benedetto Petrone, il giovane comunista ucciso a Bari in un agguato fascista la sera del 28 novembre 1977, è diventata da quel giorno di 45 anni fa un’icona della nostra storia. I complicati percorsi della memoria privata e pubblica non hanno appannato quel volto, anzi, riproponendone le sembianze pervase da gioia di vivere, hanno fatto sì che ogni anniversario fosse occasione per ricordare, capire, riflettere. Fino a rinominare un’importante strada del centro cittadino. Chi era Benedetto? Un diciottenne nato in una famiglia numerosa della città vecchia, in un’epoca in cui il primo svuotamento del centro storico s’era compiuto. Ma Bari Vecchia restava ancora un quartiere popoloso, di gente lavoratrice come i Petrone. Non si era fermato però l’assalto speculativo a quella che era stata prima della nascita del borgo murattiano l’«unica» città di Bari, densa di storia e di monumenti. E forse proprio il sentimento di questa identità popolare e antica fu il primo stimolo per la presa di coscienza di quel giovane, che volle lottare «per il risanamento di Bari Vecchia» – la parola d’ordine che fece propria –, perché essa restasse un quartiere di popolo. Idee che coltivò avendo come maestro e compagno l’architetto Arturo Cucciolla, incontrato nella sezione del Pci in cui aveva iniziato a militare con un bel gruppo di coetanei. Bari Vecchia votava comunista, e non era ancora territorio vessato da clan malavitosi che si imporranno nel decennio seguente.
Benedetto studiava ragioneria, ma quando poteva lavorava come aiuto cuoco in un ristorante del rione Carrassi, «per non dover chiedere soldi alla mamma» – racconta sua sorella Porzia, tenacissima custode della memoria. Intelligente e intellettualmente vivace, di certo consapevole di un futuro lavorativo che sarebbe stato duro e forse precario, non ne parlava – è ancora Porzia a dirlo. La generazione di quegli anni pareva non preoccuparsi del futuro; pensava al presente: qui e ora, non domani, le cose dovevano cambiare, con la lotta, con l’impegno civile.
Ma Benedetto, assai conosciuto anche fuori del suo quartiere, nella sinistra giovanile di tutta la città, era visto come un «operaio», vuoi per la sua origine e il contesto sociale – la storia politica di Bari Vecchia raccontava episodi come la resistenza della Camera del Lavoro nel 1922 e la solidarietà con il grande sciopero degli edili nel 1962 – , vuoi perché gli operai erano in quel tempo protagonisti di un movimento democratico che si batteva per la giustizia sociale e per fare barriera a un’eversione neofascista pericolosamente attiva. Il 21 novembre, appena sette giorni prima del delitto, la Cgil aveva collocato una targa in piazza Chiurlia per commemorare Giuseppe Di Vittorio che guidò la difesa della città vecchia dall’assalto fascista nel ’22. Continuità dell’antifascismo popolare. Non a caso nell’epigrafe che fu posta subito dopo il tragico fatto nel luogo in cui il giovane era stato assassinato, è scritto di lui: «Operaio, comunista, 18 anni». E non a caso, crediamo, nell’immediata mobilitazione democratica e antifascista dopo l’omicidio, che si ricorda fra le più coinvolgenti che il capoluogo pugliese abbia vissuto, fu determinante la forza operaia, insieme a quella studentesca.
Le ore seguite all’orrore inaudito del delitto furono di rabbia, di dolore, di sgomento. Nella notte dell’ira e del dubbio, fu risolutiva la decisione di proclamare lo sciopero assunta dalla Flm: la Federazione lavoratori metalmeccanici che, figlia del moto unitario dell’Autunno caldo, univa i sindacati di categoria delle tre grandi confederazioni; sulla spinta di una così forte determinazione, anche le confederazioni risposero alla chiamata. Nella enorme manifestazione del 29 novembre molte categorie di lavoratori erano presenti. La parte del leone la fecero i metalmeccanici, visibili dappertutto con gli striscioni delle loro fabbriche: la Flm si era resa interprete di una spinta spontanea e di un radicato sentimento antifascista. Giovanni Spilotros, leader sindacale della Fiat Sob, ha scritto nel suo bel libro di memorie che non si fece neanche caso se lo sciopero fosse stato indetto formalmente: un giovane, un compagno era stato ucciso, si doveva scendere in piazza a tutti i costi. I chimici, ricorda Vincenzo Chiedi, della Firestone Brema, non indissero lo sciopero ma chi aveva finito o non ancora iniziato il turno di lavoro confluì nella manifestazione. Vennero le lavoratrici tessili – racconta Margherita Di Ronzo, operaia della Hettemarks e sindacalista – con il gruppo dirigente della Filtea Cgil, composto per lo più di donne. Vennero i bancari, e altri. E venne il movimento studentesco da tutte le scuole. Il «blocco sociale» degli anni ’70, che aveva cambiato molte cose nella società italiana, si ricostituiva nelle strade di Bari forse per l’ultima volta, prima di un amaro crepuscolo.
Pochi giorni dopo, il 2 dicembre, oltre duecentomila metalmeccanici arrivati da tutta Italia sfilarono a Roma per rivendicare una politica economica socialmente giusta. Una robusta scossa anche al «governo della non sfiducia», che per la prima volta si reggeva sulla astensione del Pci. Ma la manifestazione era incentrata anche sull’antifascismo. Nel corteo – di cui si vedono le belle immagini filmate nell’Archivio storico del Movimento operaio (disponibili anche su YouTube) – risaltavano gli striscioni con le scritte: «La Resistenza continua, No al fascismo, Msi fuori legge» (gli aggressori di Petrone provenivano proprio dalla sede provinciale del partito neofascista, di cui la magistratura dispose il sequestro). I metalmeccanici baresi sfilavano con gli studenti dietro lo striscione: «Flm – Movimento degli studenti Bari. Benedetto Petrone oggi è con noi».
«Io, picchiato per sbaglio dagli squadristi. Così salvai la vita a mio fratello»
La testimonianza di Massimo Longo aggredito alla vigilia dell’omicidio
Faceva freddo la sera del 27 novembre del '77. Dovevano esserci 6 gradi, non di più. Alle 16,30 ero tornato dallo Stadio Della Vittoria con la solita ed inevitabile mestizia tipica di una sconfitta subita tra le proprie mura, sicché decisi di terminare la traduzione di una versione perché il lunedì c’era latino e, indossato il mio giaccone a quadrettoni rosso e nero a cui tenevo tantissimo al pari dell’eskimo, scesi perché avevo un appuntamento con la mia ragazza per la consueta passeggiata non prima di essermi visto Paolo Valenti e il suo struggente Novantesimo minuto.
Era morto da un paio d’anni Pierpaolo Pasolini, era anche il periodo in cui i treni saltavano in aria, le Brigate Rosse ammazzavano uomini dello stato, ma soprattutto era il periodo in cui le squadracce missine, nell'eterna lotta contro i compagni comunisti, uscivano la sera per esaltare la loro forza a suon di mazze, bastoni, coltelli e soprattutto cazzotti producendo, talvolta, vittime anche in tal senso. E anch'io, se vogliamo, pur non essendo iscritto ad alcun partito, partecipavo attivamente e convintamente ai cortei studenteschi e alle lotte varie anche (e soprattutto) perché vivevo sotto l'ombra del fratello maggiore il quale, a quei tempi, oltre ad avere i capelli lunghi e crespi tipici della nostra generazione, era impegnato e parecchio esposto politicamente a sinistra. La mia fidanzata era uscita con la sua amica per la loro passeggiata pomeridiana domenicale, io, invece, non vedevo l’ora di incontrarla, fidanzata che parecchi anni più in là, dopo qualche fisiologica iperbole sentimentale, sarebbe diventata mia moglie, la madre dei miei figli. Percorsi Via Marchese di Montrone fino a Via Putignani alle 19 circa col mio giaccone e fu lì che la incontrai. Le mie spalle erano volte al Petruzzelli e, dunque, avevo lo sguardo in direzione della scuola Garibaldi quando, d'un tratto, scorgo in lontananza come una mandria macchiata di nero, già di per sé in un'atmosfera parecchio buia, ed anzi, quasi avvolta da una leggera nebbia che raramente fa capolino a Bari, laggiù, tra gli alberi di quella strada, una folla di persone che, in modo incessante, ma senza correre, stava venendo dritto verso di me. Verso di noi.
In un primo momento non ci feci caso, pensai ad una possibile comitiva di amici, magari appena uscita da una casa, ma fu un attimo. La paura si impadronì in un baleno di me e capii che stavo per pagare cara la mia proverbiale somiglianza a mio fratello. Realizzai subito, invece, che doveva trattarsi della solita squadraccia missina barese che scorrazzava per la città in quel tempo dopo aver espugnato Poggiofranco e dopo aver marcato il territorio con lo spray disegnando un'aquila nera sopra i muri del Bar Esperia in Via Principe Amedeo ma che, pure, al di là di qualche fisiologica scazzottata, non si erano mai spinti. Già, mai spinti. Mentre altrove, in Italia, avevano già ammazzato. Il gruppo era quasi vicino a me all'angolo di Via De Rossi, quando d'un tratto urlai alla mia fidanzata di scappare via, magari dentro il portone dell'amica che, combinazione, abitava proprio lì. Così fu. Entrambe riuscirono ad entrare nel portone, a chiuderlo, e salire verso piani alti, probabilmente entrando in casa dell'amica, mentre io rimasi lì, impotente, immobile e cristallizzato dalla paura, consapevole che, probabilmente, non l'avrei fatta franca. Tremavo. Mi accerchiarono, mi chiamarono «Longo è giunta la tua ora, hai salutato la mamma?». Non riuscii a trovare il tempo per piangere, né per gridare aiuto - anzi un «aiuto» lo gridai istintivamente, ricordo - perché mi sentivo solo e certo di non poter riuscire a fuggire. Li guardai in faccia: uno lo riconobbi nonostante il passamontagna. Abitava sotto casa mia, in un basso, e quando era in «borghese», ci scambiavamo i «Topolino» e ci sorridevamo: anzi, ora che ricordo, qualche volta siamo andati insieme persino allo stadio. Gli altri no, o meglio, nonostante i passamontagna, non riuscii a riconoscerli. Non riconobbi nemmeno Pino Piccolo anche perché non sapevo chi fosse ma sicuramente doveva far parte di quel gruppo quella sera. Mi distesi per terra ancor prima di essere picchiato selvaggiamente, quasi come estrema difesa, sperando che non mi avrebbero fatto tanto male. Ho ancora qualche segno dietro la spalla, fortunatamente ormai quasi scomparso, ma soprattutto i segni ce li ho indelebili nella mente. Il mio amico «nemico» fascista, ad un ultimo disperato «per favore smettetela» gridato da me dopo aver ascoltato il rumore sordo dei bastoni e delle mazze scaraventati sul mio corpo, e dopo aver, per fortuna, solo visto i pugni di ferro e qualche coltello affilatissimo sbucare dalle tasche, finalmente mi riconobbe e mi disse: «Non sei, dunque, Antonio, tu sei Massimo! Va bene, fermatevi, basta così! La lezione gli servirà comunque a Massimo: così impara, anche lui, a frequentare i cortei del liceo e ad essere comunista!». Dunque, anche io «me le meritavo». Bontà tua. Avrei voluto dirgli. Mi guardò con tenerezza carducciana sebbene fosse nascosto dal passamontagna, quasi volesse scusarsi col sottoscritto per quel che aveva combinato, ma - si sa - il vero fascista non chiede mai scusa. O quanto meno, all'epoca, non era contemplato nel loro vocabolario. Oggi forse si. Forse. Tornai a casa con la mia fidanzata che però accompagnai prima a casa sua, decisamente zoppicante e dolorante e, per fortuna, solo appena sanguinante perché le botte le ebbi sulla schiena e sulle gambe risparmiandomi la faccia e la testa sebbene avessi visto coi miei occhi i coltelli. Non dissi nulla ai miei.
Mio fratello Antonio non c’era a casa quando entrai io. Andai in bagno simulando, davanti ai miei, un improvviso dolor di pancia e mi spogliai per vedere le ferite: poco sangue e molti lividi qua e là. Me le medicai alla meglio e raggiunsi la mia stanza finché tornò mio fratello al quale, però, raccontai tutto: «Guarda che ho preso mazzate dai fascisti al tuo posto», gli dissi. «Meno male come ti è andata» mi rispose con irritante, ma non per questo provata, freddezza - ma mamma e babbo lo sanno? «No», gli risposi. «Non dir loro nulla», aggiunse. E pensare che la mia mente, già provata per quella maledetta domenica, non era ancora devastata da ciò che sarebbe accaduto il giorno dopo in Piazza Prefettura. E di lì, fino ad oggi, colgo ancora tracce insondabili e palpitanti di un'angoscia stupefatta e bruciante. Avevo paura, sentivo che l'angoscia non sarebbe finita lì. Il giorno dopo, quando ammazzarono Benny vigliaccamente, pensai che si sarebbe potuto salvare. Al suo posto dovevo esserci io. Si, io. Nessun altro. Nemmeno mio fratello a cui, se vogliamo, avevo, probabilmente, salvato la vita. Perché i fascisti non ammazzavano uno al giorno, anzi, quando ammazzavano sparivano per molto tempo finché le acque si fossero calmate e, dunque, una volta ammazzato me, sarebbero spariti risparmiando Benny. Ecco, mi son confrontato nel tempo con la coscienza riconoscendomi fragile davanti a ciò, sospeso nell'oscurantismo della memoria che da quel giorno non riesco ad abbandonare ogni qualvolta si ricorda Benedetto Petrone in Piazza Prefettura.
Ne è passato di tempo. La vita scorre ormai come un fiume in piena però ruggisco ancora e sbuffo come una Locomotiva gucciniana indomitamente anche se quel giaccone a quadrettoni rosso e nero non ce l’ho più. Ma l'eskimo si, quello ce l’ho ancora per ogni evenienza.