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Bari, tsunami lavoro: 39 imprese in crisi minacciano l'economia dell'area metropolitana

 
Rita Schena

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Rita Schena

Bari, tsunami lavoro: 39 imprese in crisi minacciano l'economia dell'area metropolitana

Tremila posti di lavoro a rischio. Parlano il presidente di Confindustria Sergio Fontana e Gigia Bucci

Sabato 19 Febbraio 2022, 14:35

Come uno tsunami. Un'onda gigantesca rischia di azzerare l'intera economia barese. E senza risparmiare alcun settore. Dall'automotive, fiore all'occhiello di quel distretto della meccanica che tanto ha fatto crescere l'economia cittadina, al turismo, le comunicazioni, servizi, edilizia. Non c'è un solo ambito che si salva, tanto che le 39 vertenze avviate nell'intera area metropolitana ormai si possono riassumere in una singola: la grande «vertenza Bari».

E se la produzione meccanica soffre per la scadenza del 2035 quando non si potranno più produrre auto a combustione interna, non si salva il turismo flagellato dalla pandemia o le imprese di servizi e i call center.

Eppure il 2021 apparentemente aveva fatto ben sperare: ritmi di crescita che non si vedevano da un ventennio, con Bari che aveva segnato dati positivi tra i migliori del Sud. Solo che poi grattando un po' la superficie ecco che i contratti sono per la stragrande maggioranza precari, sottopagati, con un gap salariale tra uomini e donne che mortifica le seconde, mettendole nelle condizioni di dover rinunciare al loro impiego. Una economia fragile che si perde nel paradosso di una crescita che si nutre solo di lavoro povero e dove si guarda con troppe speranze ad un Pnrr che invece non è la bacchetta magica, specie se non ben governato.

Bari diventa così centro di tutte queste contraddizioni: un territorio dove le grandi imprese, come ad esempio la Bosch minacciano esuberi a tre cifre, dove chiudono alberghi storici come il Palace, dove una azienda di call center come la Brsi nonostante commesse decide di licenziare in tronco oltre 90 lavoratori. Bari soffre di strategie fallite, di imprese che hanno preso senza dare, di una politica volutamente miope.

E di tutto questo ne è simbolo la vertenza Om Carrelli entrata nell'undicesimo anno. Un tempo infinito fatto di tavoli, confronti, conferenze di servizio (l'ultima solo pochi giorni fa), dove ancora si aspetta l'approvazione del Pia per poi far partire la realizzazione dello stabilimento (per il quale ci vorranno almeno 15 mesi), che poi permetterebbe l'assunzione di alcuni dei 156 lavoratori che da due anni sono anche senza ammortizzatori. Una storia infinita e paradossale se si pensa che la rinascita della ex Om Carrelli, che ora è affidata a Selectika che trasformerà i rifiuti di plastica e vetro, fino a qualche anno fa era nelle mani della Tua Industries che a Bari doveva produrre auto elettriche. Proprio quelle auto elettriche che oggi mettono in crisi il settore automotive tradizionale nazionale e locale, che spinge Bosch a sventolare l'ipotesi di 700 esuberi se qualcuno non aiuterà il processo di riconversione.

Il tutto in una provincia dove la presenza di eccellenze come il Politecnico o l'Its Cuccovillo possono garantire una formazione di grande rilievo. Ma i giovani vanno via, al Nord o all’estero, per trovare un lavoro sano a fronte di oltre 35mila disoccupati locali che si muovono come pesci in barile, sballottati per tutta l'area metropolitana, alla ricerca di un qualcosa che non c'è. Perché se qualche speranza lavorativa altrove c'è, per i giovani con la valigia, è tutto più difficile per un cinquantenne che perde il suo impiego.

La «vertenza Bari» è tutto questo e molto di più. Dietro ogni licenziamento c'è una storia, una famiglia che si vede crollare il terreno sotto i piedi, una società che si impoverisce. Lo tsunami è già in corso e se non si farà qualcosa di concreto, si rischia che alla prima onda se ne aggiunga una seconda e una terza. E alla fine non resterà più nulla.

Fontana: «Stop aiuti di Stato senza un piano» (di Ninni Perchiazzi): «È tutto estremamente complicato, è in corso una transizione economica velocissima. Basti pensare al mondo della scuola: i docenti sono passati dall’insegnamento diretto alla dad nell’arco di un giorno. Chi lo avrebbe mai detto». Sergio Fontana. presidente di Confindustria Puglia e Bari Bat analizza l’emergenza della Terra di Bari non senza preoccupazione. «Il passaggio dalla carrozza trainata dai cavalli al motore a scoppio ha richiesto 20 anni. E tutta l’economia correlata si è dovuta adeguare e rigenerare. Adesso la transizione digitale, anche a causa della pandemia, ha richiesto un passaggio molto rapido, ma le aziende soprattutto quelle più grandi hanno difficoltà a cambiare. La Bosch è passata dal produrre 2,1 milioni di motori Common rail a 400mila euro. Una diminuzione netta per un colosso del genere».

È la transizione ecologica.
«La transizione verso un’energia pulita deve essere sostenibile dal punto di vista ambientale ed economico e soprattutto sociale. Nel caso specifico abbiamo il problema di 700 persone che vanno via nei prossimi 5 anni ma se non c’è un piano industriale adeguato temo che lo stabilimento possa chiudere».

Diventa fondamentale l’intervento delle istituzioni?
«Città metropolitana, Regione e Stato possono fare delle attività prodromiche a mettere nelle migliori condizioni le aziende affinché realizzi questo passaggio. Però se non c’è un un’impresa pronta non serve a molto. Nel caso della Bosch io ho chiesto che mi si dia il piano industriale a 5 anni affinché personalmente possa attivarmi. Presso le istituzioni».

Non c’è il rischio che le grandi imprese provino a scaricare i costi della transizione e della riconversione sulle istituzioni ovvero sulla collettività? È una storia già vista.
«Certo lo Stato non si può sostituire nel fare l’impresa altrimenti il rischio è di avere 10 Alitalia in Puglia. Occorre una politica industriale, mirata, dello Stato, a maggior ragione nel periodo della pandemia. Pensiamo ai danni subiti dalle donne, alle rpese anche con la famiglia, perché non sono state supportate da un’adeguata rete statale».

Ancora una volta sotto attacco sono i lavoratori e le loro famiglie sui quali può vertere il peso maggiore del processo in corso.
«Il rischio c’è. Basti pensare che nella filiera produttiva dell’auto elettrica dove prima ci volevano dieci persone adesso ne occorre una».

Le altre nove che fine fanno?
«Occorre lavorare con buone politiche industriali da parte di istituzioni e imprenditori, i quali hanno la responsabilità sociale dell’impresa, a partire dai piani di formazione. Ma se le aziende chiedono soldi e contributi senza alcuna destinazione, allora i soldi è meglio non darglieli. La cig è necessaria nelle situazioni di emergenza ma è una misura ponte: non si può vivere di assistenzalismo per sempre. I lavoratori in cig hanno il diritto-dovere di fare formazione per avere altre opportunità di impiego»

Qual è la vostra ricetta?
«La nostra proposta allo studio prevede che un lavoratore in uscita da una grande azienda in crisi, che + fallita o non ce l’ha fatta a riconvertirsi, possa essere assunto (dopo un periodo di formazione retribuito) da un’altra azienda che a sua volta riceva lo sgravio dei contributi da parte dello Stato. È una forma di politica attiva di sovvenzionamento e il lavoro. Adriano Olivetti diceva sempre: in me non c’è che futuro. È il nostro futuro è la piena occupazione ovvero puntare a tutte quelle forme che incentivano il lavoro».

La parola chiave è responsabilità sociale dell’azienda. È un cambio di visione culturale in nome della sostenibilità.
«I portatori di interesse maggiore che hanno le imprese sono i propri lavoratori, che sono il patrimonio di ogni azienda. La responsabilità sociale d’impresa non è un’attività filantropica ma è un interesse dell’impresa. C’è tutta una serie di parametri che porta alla governance sostenibile dell’azienda, che deve essere economica sociale e ambientale. Se produco e inquinano l’ambiente, certo non creo ricchezza».

«Rischio precarietà e fuga di cervelli»: la parola a Gigia Bucci (di N. Perchiazzi) - La grande vertenza Bari Potrebbe essere il titolo di un noir sul lavoro. «L’area metropolitana non ha 39 vertenze, ma una sola enorme vertenza». Gigia Bucci, segretaria della Camera del lavoro della Cgil barese rimarca peso e pericoli sociali incombenti sull’intera area metropolitana. «Siamo in una fase economica e politica - spiega -. Eppure in virtù degli strumenti a disposizione - PNRR, transizione ecologica e digitale - dovremmo poter parlare di espansione dell’occupazione, di crescita economica del Paese e del Mezzogiorno. È una sfida che sta determinando la crescita del Pil, con l’aumento della produttività, a cui però purtroppo non corrisponde la crescita dell’occupazione stabile».

È paradossale.
«Aumentano licenziamenti, oltre a lavoro precario, ore di cassa integrazione e riduzioni da full time a part-time. Di fatto aumenta la precarietà del lavoro ma non la qualità dell’occupazione e quindi la qualità della vita».

La crisi era però già latente.
«Tutto ciò ha palesato e aggravato crisi che erano già in corso, come Baritech, Bosch, hotel Palace».

Come si risponde a questo scenario terribile?
«Occorre determinare un ruolo molto forte del pubblico. La Regione deve governare queste crisi con risorse che però vincolino le aziende al risanamento dei distretti industriali. Ad esempio, l’automotive è in crisi per scelte industriali, ma anche perché le auto non può permettersele più nessuno. Il motivo è semplice: gli stipendi sono calati e il lavoro è sempre più precario. Per cui comprare un’auto e è sempre più difficile. Se non riconverti le competenze, il settore è destinato a morire».

Qual è il compito del pubblico?
«Il ruolo della Regione è strategico con i corsi di formazione. Parliamo di un bacino occupazionale di over 50. In mancanza di un’immediata riconversione rispetto alle sfide che ti pone la transizione ecologica, nel momento in cui termineranno gli ammortizzatori sociali, tutti questi lavoratori andranno verso il licenziamento perché non saranno più in grado di rientrare nel mondo del lavoro. Quindi lo schema è: dare le risorse ma vincolare le imprese e aprire urgentemente corsi di formazione e riconversione sia dei siti industriali sia dei lavoratori. Bisogna però fare in fretta. I soldi ci sono».

L’emergenza però è ormai una costante.
«Quanto si sta consumando su Baritech è inammissibile. Ovvero l’idea che è un grande gruppo decida di investire, ma slegandosi da vincoli di assunzione rispetto allo stato di crisi aperto. Di fatto assumeranno principalmente giovani, espellendo l’attuale forza lavoro. Così ci troveremo i padri fuori dalle fabbriche, mentre i figli ci entreranno con un contratto precario. Il risultato sarà produrre ulteriore povertà sul territorio».

Prendi i soldi e scappa, un altro film già visto. E si scaricano sulla collettività i costi della riconversione.
«È il rischio che c’è sempre stato e si determina anche questa volta, se il pubblico non giocherà un ruolo dominante. Oggi siamo esattamente come all’indomani della seconda guerra mondiale, è una fase di profondo e rapido cambiamento, che se non verrà governata, riserverà opportunità e ricchezze solo per pochi. L’iniqua distribuzione delle ricchezze sarà confermata ed accentuata con ricadute pesanti sul mondo e lavoro».

Torniamo alla grande vertenza Bari.
«È questo il motivo per cui strategicamente la questione occupazionale va considerata nel suo complesso, senza separare i singoli casi. Occorre tenere assieme tutto il territorio. Lo ribadisco quelle risorse vanno vincolate alla crescita del territorio legate a politiche di sviluppo globali. Le assunzioni di Bosch e Baritech, le scelte rispetto ai lavoratori non riguardano solo futuro e piano industriale di quelle aziende ma il futuro e lo sviluppo di tutta l’area metropolitana. Ciò accadrà se non cambiamo l’impostazione. È il motivo per cui abbiamo chiesto la presenza di Politecnico ed Università che stanno producendo competenze sul territorio. Occorre evitare che vadano a realizzarsi in altre regioni d’Italia oppure qualora restino qui che siano costretti a rimanere in condizioni di sotto salario. È un fenomeno da scongiurare». 

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