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Covid 19 a Bari, parla l'anestesista Angela: «Il mio nome su un cerotto, così i pazienti mi riconoscono»

 
Graziana Capurso

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Graziana Capurso

Covid 19 a Bari, parla l'anestesista Angela: «Il mio nome su un cerotto, così i pazienti mi riconoscono»

Pezzi di vita dal fronte raccontati dalla dottoressa Angela Grassi, specializzanda della provincia di Matera, al terzo anno in Anestesia e Rianimazione e in prima linea nel padiglione Brienza del Policlinico di Bari, ormai interamente riconvertito per l'emergenza Coronavirus

Martedì 31 Marzo 2020, 10:27

BARI - A volte basta un cerotto per restare umani. Non servirà a sanare i segni che il Coronavirus lascia fuori (e dentro) chi si ritrova in corsia, che sia medico o paziente, ma aiuta a misurare il polso della grandezza dei piccoli gesti quotidiani, lì dove la normalità non esiste più. A raccontarci pezzi di vita dal fronte è la dottoressa Angela Grassi, specializzanda della provincia di Matera, al terzo anno in Anestesia e Rianimazione e in prima linea nel padiglione Brienza del Policlinico di Bari, ormai interamente riconvertito per l'emergenza Covid 19.

«Per farmi riconoscere dai pazienti ho usato un cerotto. Scrivendoci su il mio nome. Sotto, un camice sterile, sotto ancora una tuta impermeabile, due/tre paia di guanti. Per il capo mascherina, occhiali e scudo. Coperti da capo a piedi, solo gli occhi sono visibili, ed è forse la cosa più importante - spiega Angela - tra colleghi non ci riconosciamo di spalle, talvolta nemmeno di fronte, anche se io sono fortunata: lavoro con una squadra di medici, infermieri e ausiliari che conosco da molti mesi ormai, mi basta guardarli di sottecchi per capire chi sono. Ma i pazienti no, per quei pochi pazienti svegli in terapia intensiva è ancor più difficile capire chi sta loro di fronte».

E così che le si è accesa la lampadina: «l'idea mi è venuta l’altro giorno parlando con un paziente in rianimazione, rendendomi conto di cosa possa significare per lui stare in un ambiente del genere: da solo, pieno di rumori, in uno stanzone enorme ormai purtroppo pieno di altre persone sconosciute. Se si gira a destra e a sinistra vede la maggior parte delle persone sedate, con un tubo in gola e mille fili che collegano il suo corpo a monitor e pompe di farmaci. Mi sono fermata a parlare un po’ di più con lui, ho provato a mettermi nei suoi panni: le uniche persone con cui può cercare di parlare siamo noi medici e infermieri, ma siamo tutti scafandrati, affaccendati, accaldati, assetati, impacciati nei movimenti, nervosi, spaventati, irriconoscibili per lui».
«Mi ha chiesto: “Dottoressa come ti chiami?”. Gli ho risposto, abbiamo parlato, ho dovuto bucarlo tre volte per prendergli due vene e un’arteria. E nonostante tutto mi ha ringraziata. Non ci sono abituata. Poi mi sono allontanata e quando sono ritornata per controllare che fosse tutto a posto, non riusciva a capire se fossi io o un’altra persona, allora sorridendo ho preso il cerotto e ho scritto il mio nome su. "Ecco, se hai bisogno ancora di me, e mi vedi da lontano, sai che sono io, puoi chiamarmi per nome e arrivo". Lui mi ha sorriso e ringraziato mille volte, e così ha fatto, chiamandomi da lontano se aveva bisogno. Sono stata contenta che, almeno per la durata del mio turno, avesse un punto di riferimento».

È complicato varcare quella soglia ogni giorno, Angela lo sa bene: «Sembra di entrare in un mondo surreale, silenzioso e asettico, dove l'unico suono costante è il bip dei monitor. Già dal momento della vestizione nella camera filtro i pensieri si rincorrono. Staranno tutti bene? Cosa potrò fare oggi per loro?». Sono le domande prima di scendere in trincea. Sì una trincea, perché di guerra si tratta. «Solo mentre ci svestiamo e indossiamo quella sorta di scafandro protettivo nella zona filtro, riusciamo davvero a immedesimarci in chi è stato colpito da questa malattia. La tuta ti fa sudare, non ti fa respirare: il senso di mancanza d'aria è perenne, un po' come quello che provano i nostri pazienti intubati. E l'alienazione è tanta. Siamo terrorizzati. Io sono terrorizzata, non per me, ma per i miei cari. Potrei diventare un untore e non saperlo. Però ogni giorno mi faccio forza».

L’aspetto più drammatico di questa vicenda è che la gente ricoverata non ha i propri cari accanto e se non ce la fai, muori da solo. «Ho visto medici pregare davanti ai pazienti per dargli un ultimo, degno, saluto. Qui ci siamo solo noi. Noi che ogni giorno chiamiamo i parenti per aggiornarli, per dare loro conforto anche se a distanza. Elaborare un lutto è già difficile, figuratevi quando non si ha più modo di vedere il proprio padre o la propria madre - sottolinea la dottoressa - morire in rianimazione è diverso: ci si spegne piano piano, come avviene per una candela. Gli organi collassano a poco a poco, ma noi ce ne accorgiamo e poco prima che succeda ci avviciniamo ai letti dei pazienti per stringergli la mano: è il nostro modo per dire loro che non sono proprio soli. Non chiamateci eroi, facciamo solo il nostro lavoro e nel miglior modo possibile. Ogni volta però è una morsa al cuore».

E quando le si chiede qual è la cosa che le pesa di più in questa infernale routine, fatta di lacrime e sudore, risponde: «L'appello. Sì, faccio l'appello di chi ce l'ha fatta e di chi non è più in reparto. E non sapete quanto è straziante. Appena entro in turno, con un colpo d'occhio, faccio la conta dei letti e in base all'esito del check, dopo un rapido sguardo ai monitor, tiro (o meno) un sospiro di sollievo».«Volete davvero aiutarci? Bene: restate a casa - conclude Angela - ma soprattutto vi chiedo di restare umani. Non accusate chi ha contratto il virus, non lo voleva. Non accusate chi, in corsia o nei comuni o nelle associazioni di volontariato, cerca solo di aiutarvi. Restate umani, restiamo umani. Questo davvero il virus non può togliercelo».

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