Se PopBari non avesse acquisito Tercas, Tercas sarebbe fallita. Ma quell’operazione - è la tesi della Procura di Bari - è l’inizio della discesa agli inferi dell’istituto barese, oggi alle prese con un commissariamento che deve gestire un buco da 2 miliardi. Il 6 novembre 2017 davanti agli investigatori si accomoda Salvatore Rossi, all’epoca direttore generale di Bankitalia e oggi presidente di Tim. Quella dell’economista barese è una testimonianza straordinaria: sia perché apre una finestra sulle stanze segrete del Direttorio, sia perché gira intorno al punto centrale di tutto. Ovvero sul perché PopBari si ritrovò ad acquistare l’istituto abruzzese.
E infatti la domanda più importante del procuratore aggiunto Roberto Rossi e della pm Savina Toscani è sostanzialmente questa: fu Bankitalia a chiedere alla Bpb di acquisire Tercas? «No, non lo so - è la risposta di Rossi -. Secondo me, no, però non ne posso essere sicuro». La curiosità dell’accusa ha un motivo ben preciso: quando viene autorizzata a prendersi la banca abruzzese, in quel momento commissariata, PopBari è sottoposta a un divieto di espansione imposto dalla stessa Banca d’Italia. Divieto che viene eliminato.
E dunque, primo punto. Perché l’ispezione del 2010 aveva imposto alla Bari quel vincolo, cioè il divieto a fare altre acquisizioni? Rossi riconduce il motivo alla debolezza della struttura di comando, troppo in mano alle stesse persone: «Guarda, tu così non va[i] bene, in particolare la tua governance non va bene, perché, è vero che sei una popolare, è vero che sei una popolare non quotata, però la dominanza della famiglia Jacobini, ed in particolare del suo presidente, è eccessiva, quindi non c’è dialettica interna, la governance non va, e quindi noi ti diciamo: in queste condizioni non puoi più crescere».
Fatto sta che gli Jacobini c’erano prima e ci sono anche quando Bari viene autorizzata a comprare Tercas. E su questo, ecco la motivazione di Rossi: «Il fatto che noi abbiamo rimosso i provvedimenti restrittivi è perché ci siamo convinti che andavano rimossi. Ne eravamo convinti, ce ne siamo convinti nel 2013 a seguito della seconda ispezione, che pure si è chiusa... con un giudizio severo riguardo... però dava atto che le cose stavano cambiando. Quindi lì gli uffici si sono convinti che forse andavano rimossi quei provvedimenti restrittivi».
I documenti acquisiti dalla Finanza e quelli forniti da Bankitalia non spiegano materialmente chi e perché abbia deciso di eliminare il vincolo. Tutto ciò che il direttore generale può dire sul punto è che «è stato avviato un procedimento d’ufficio finalizzato a rivalutare l'applicazione di provvedimenti restrittivi». Ma «che cosa si intenda per “procedimento d’ufficio” (è la frase riportata in uno dei documenti, ndr) francamente non lo so». Emerge solo che la Bari fu preferita a una cordata abruzzese: «Gli uffici di Vigilanza (guidati all’epoca da Salvatore Barbagallo, ndr) hanno valutato anche la cordata abruzzese, e l’hanno ritenuta non viable diciamo noi (...) Quello che gli uffici poi hanno detto a noi Direttorio è che la cordata abruzzese fondamentalmente non c’era. Quindi l’unica offerta valida era quella della Popolare di Bari». Che fa l’operazione «solo a condizione che qualcuno ripiani le perdite di Tercas». Ovvero il Fondo di garanzia, con i suoi 280 milioni.
La tesi di Rossi è che, in realtà, «Bari fa un affare a pigliarsi Tercas» che era stata ripulita da due anni di commissariamento. Eppure quello del 2015 è il primo bilancio di PopBari a chiudersi in perdita. Cosa è andato storto? «Va storto il fatto che loro per un anno intero non possono integrarsi con Tercas e quindi fare quei risparmi, quelle sinergie, che sono tipici delle operazioni di acquisizione, quando si acquisisce una banca, la prima cosa che si fa si eliminano i doppioni, si manda a casa anche qualcuno, eh!». E perché non possono? «Perché la Commissione Europea si mette di traverso, e quindi dice: “Questo è un aiuto di Stato”». Si riferisce appunto ai 280 milioni del Fondo interbancario, erogati dopo il placet di Bankitalia: la questione si risolve con un espediente tecnico, ma dall’acquisto del luglio 2014 alla fusione passa un anno e mezzo. E nel frattempo Bari deve fare due aumenti di capitale da 480 milioni di euro che bruciano quasi 70mila risparmiatori.