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Bari, la storia di Antonella «Io, fornaia come i miei nonni: vi racconto la mia scommessa»

 
Rita Schena

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Rita Schena

Bari, la storia di Antonella «Io, fornaia come i miei nonni: vi racconto la mia scommessa»

Antonella con Gennaro

Antonella Milantoni e il lungo contenzioso giudiziario per riprendersi il panificio di famiglia

Venerdì 24 Gennaio 2020, 16:23

19:31

BARI - Il profumo fragrante di pane caldo penetra lungo le strade di San Pasquale. L’attività ferve nell’omonimo panificio proprio nel cuore del quartiere. In tanti passano e si affacciano, vedono Antonella Milantoni dietro il bancone e si illuminano.

«Sei tornata! - dice un anziano -. Come è bello rivederti». «Ci sei mancata - esclama una signora che poi si affretta a chiedere -. C’è la focaccia?». Qualcuno entra solo per una stretta di mano e un abbraccio, il quartiere si stringe attorno a questa sua figlia ritrovata, nipote del panettiere che avviò l’attività nel 1961 e che ora torna a nuova vita.

«Io sono cresciuta qui e avevo promesso a nonno Pasquale che avrei ripreso in mano il suo panificio – racconta raggiante Antonella – ci ho messo 5 anni a causa di un contenzioso familiare. Ma ora ci sono. È stato tutto fulminante, dopo tanto lottare tra avvocati e tribunali, martedì scorso sono riuscita a rimettere piede nel panificio, ho risentito i profumi della mia infanzia e cosa posso dire? Mi sono emozionata. È stata la mia rinascita dopo una brutta malattia che mi ha colpita 10 anni fa».

Il panificio in questi anni ha continuato sempre a produrre, fuori campeggia ancora la vecchia insegna luminosa con un numero di telefono ormai inesistente da tempo, ma negli ultimi anni la gestione era passata di mano. Antonella ha dovuto combattere per ottenere giustizia di un luogo che è stato sempre suo. «Se oggi siamo qui è per la caparbietà di Antonella – spiega un amico di famiglia che le è sempre stato vicino -, è il vero segreto di questo successo. Si è rimessa in gioco ripartendo da zero».

Antonella sorride. È una donna minuta che sembra ancora più piccola nel suo camice bianco, al suo fianco il figlio va e viene portando ceste di pane appena sfornato. C’è anche Gennaro un anziano panettiere che negli anni Settanta ha lavorato con il nonno, quando lei era solo una bambina. «Non un dipendente – spiega Antonella – ma quasi un fratello grande. Quando mia madre si è ammalata e doveva fare la chemio era Gennaro che la accompagnava in ospedale. Mi prendeva per mano e mi portava a mangiare il gelato proprio qui dietro. Io e i miei fratelli siamo rimasti orfani da piccoli, siamo cresciuti tra Gennaro e i nonni materni in questo panificio».

«Negli anni Settanta qui non c’era nulla – racconta Gennaro – di fronte era tutta campagna, un istituto di suore con un asilo, il quartiere si sviluppava tutto più giù. Era più piccolo ma sembrava molto più popoloso, forse perché le famiglie facevano più figli, non so. La panetteria ne era veramente il cuore anche perché la povertà che c’era imponeva una dieta quasi esclusivamente fatta di pane. Le persone entravano e chiedevano tre-quattro chili di pane al giorno, oggi vengono e ti chiedono una rosetta per Susy e tu chiedi “chi è Susy, la bambina?” No è il cagnetto che portano in braccio, ma si può?». E nella panetteria tutti ridono.

«La verità è che tutto è cambiato dai tempi di mio nonno – sottolinea Antonella -. Mi ricordo che in tanti compravano il pane e mio nonno vendeva sulla fiducia. Entravano e dicevano: “me lo segni?”, poi magari pagavano a fine mese. A volte ricapita anche oggi, la povertà si sente e il pane non si può negare a nessuno. E sempre parlando di cambiamenti non si può non citare la tecnologia che oggi usiamo. Prima si impastava a mano o con strumenti veramente artigianali, oggi usiamo impastatrici elettriche, forni a gas a più piani».

«Quando lavoravo io invece i forni erano due, con due diverse camere di cottura – spiega Gennaro -. Una a livello dove siamo ora ed un’altra più giù, si scendevano tre gradini. I forni erano alimentati con la sansa che veniva versata in una specie di grosso imbuto. Quando dovevamo fare il carico dicevamo “andiamo che c’è da dar da mangiare al cavallo”. Ci si imbrattava tutti di fuliggine perché la sansa bruciata ti sporca come il carbone».

«Dalla sansa poi si è passati ai forni alimentati dalle bucce di mandorle, arrivavano in grandi sacchi – racconta Antonella -. Per non parlare che mio nonno produceva solo pane, taralli e focaccia, oggi se si vuole rimanere sul mercato si deve diversificare anche con piatti pronti, ad esempio, la pasticceria, i servizi».

«Ho combattuto per riavere questo posto, io dico sempre che se sia vendere il pane sai vendere tutto, perché il pane è un bene primario. Oggi che sono qui, di nuovo a contatto con l’anima dei miei nonni, cercherò di far tesoro di quanto mi è stato insegnato. Qui ora ho richiuso il cerchio della mia vita - continua a narrare Antonella - non resta che rimboccarmi le maniche e recuperare, anche per mio figlio. Lui oggi è al mio fianco a quello che era il mio sogno, ma a 19 anni ha il suo sogno da dover portare avanti e non è detto che possa essere per lui questo panificio. Io ricomincio da qui, perché lui possa spiccare il volo, nel nome di mio nonno Pasquale che da Ruvo si trasferì a Bari per dare un futuro alla sua famiglia».

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