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La giustizia nel nome del popolo indignato

 
Filippo Santigliano

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Filippo Santigliano

Palazzo di Giustizia di Bari

Palazzo di Giustizia di Bari

Il sospetto che lo Stato, teoricamente arbitro della legalità, fosse complice se non regista della giustizia svenduta è argomento che esula dalla discussione circolare e dai retroscenisti di professione

Giovedì 10 Giugno 2021, 17:08

Il sospetto che lo Stato, teoricamente arbitro della legalità, fosse complice se non regista della giustizia svenduta è argomento che esula dalla discussione circolare e dai retroscenisti di professione.

Siamo invece di fronte a qualcosa che va oltre e che ha trasformato quello che si pensava potesse essere una scossa isolata in uno sciame infinito, capace di travolgere in poco tempo le certezze che si ripongono nella Giustizia (anche quando è ingiusta) in preoccupazione, incubo, oppressione, fino a diventare «piaga»: da Trani a Bari passando per Taranto, la questione giustizia in Puglia si è trasformata da processo penale che deve accertare un fatto in un fatto penalmente rilevante creato dalla stessa magistratura e che viene ora perseguito al suo interno. Un passaggio traumatico che fa emergere da una parte la lotta ai reati, e ai corrotti, e dall'altra una problematica della società, ovvero la corruzione.

Che ovunque puoi anche aspettarti di incrociare, ma non di certo in quel deposito fiduciario che sono le procure e i Tribunali. Nulla a che fare con la Corruzione a Palazzo di Giustizia di Ugo Betti - dramma teatrale del 1944 - che trattava di tematiche interne a un certo modo di esercitare la funzione della magistratura, ma ancora attuali se declinate a questi tempi moderni e tristi.


Il triangolo irregolare tratteggiato da Trani a Taranto passando per Bari - e scoperchiato dai colleghi delle procure di Potenza e Lecce - fa infatti emergere una tavolozza espressiva tutt'altro che astratta, per il semplice motivo che siamo di fronte a una maxi indagine a puntate che non ha parole fraintese, ma fatti evidenti (anche se bisogna sempre attendere i processi) che rappresentano un distillato amaro per chi esercita con rigore e umanità le magistrature e soprattutto per i cittadini disorientati se non tramortiti da una serie di avvenimenti che hanno messo la Puglia, suo malgrado, sul «piedistallo» dell'indignazione. Senza capire - o rendersi conto - che è proprio la pratica di questo tipo di giustizia mondana, al pari di comportamenti ed atteggiamenti che avrebbero se non altro richiesto un minimo di contenimento e senso del limite, a fare il gioco degli avversari della giustizia che approfittano di questa vergogna per alimentare il proprio pregiudizio ed avvicinarsi ai propri obiettivi. Con l'aggravante che, in più di una circostanza, il diritto ad affermare un certo tipo di giustizia aveva il sapore della vittoria di una fazione sull'altra, in quel campionato interno alle toghe falsato pure dal «Var», come descritto a esempio da Palamara nel suo sistema.

Ora tuttavia è tempo di curare il male e non soltanto i sintomi per prosciugare quel bacino di sofferenza morale che pervade l'altra parte della magistratura, quella che fa il suo dovere e che spesso e volentieri opera al fronte e in condizioni complesse se non difficili. In tal senso emerge il ruolo di chi, da magistrato che indaga su un collega, invece di far scorrere l'ordine delle cose ha invece scoperto il «sistema» che da Trani a Taranto via Bari alterava i pesi della bilancia. E mai come in queste situazioni scoprire significa vedere qualcosa che c'è e che nessuno vede (o che non voleva vedere), in quella semplice e scrupolosa onestà di fondo che dovrebbe caratterizzare ogni civil servant, al di là delle gerarchie, oltre i ruoli e le funzioni.

Fermo restando le cautele che devono comunque accompagnare ogni procedimento, ed il principio di non colpevolezza garantito dalla Costituzione, è fuori discussione che indipendentemente dalle verità processuali, siamo già di fronte a più un tassello di verità storica che ci consegna la possibilità di allestire un mosaico disarmante. Per chi deve continuare a esercitare la Legge in nome del popolo e per chi chiede Giustizia, ovvero i cittadini, oggi sfiduciati. Recuperare quindi il discredito da una parte e quell’autorevolezza morale dall'altra è dunque quanto mai necessario per riscattare gli uffici giudiziari quando assumono una decisione, dalla più importante a quella apparentemente futile o irrilevante.

Per cicatrizzare queste ferite profonde servirà certamente un profondo bagno di umiltà e una revisione di certi meccanismi, a cominciare da quello delle garanzie, ovvero avere interlocutori credibili e non affaccendati in affari contro l'ufficio di cui sono incaricati.

Nel tempo si potrebbero sciogliere vari nodi operativi funzionali, ma la vera partita col diavolo (le magistrature deviate) è ritrovare la strada dell'etica senza cedere ai moralismi. Mai come in queste circostanze, per la sacralità che assume la Giustizia nella vita quotidiana, i mercanti vanno accompagnati fuori dal tempio.

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