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Giuseppe e il Mes, i due nodi e sullo sfondo avanza mr Euro

 
Leonardo Petrocelli

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Leonardo Petrocelli

Se la presidenza della Camera non è sinonimo di foglia di Fico

il presidente della Camera Roberto Fico

Sbloccare il premier significa far nascere il Ter o il Bis bis in un battibaleno, rimandare vuol dire lasciar tutti nel pantano fino a nuovo ordine

Lunedì 01 Febbraio 2021, 13:45

La crisi più pazza del mondo non è ancora finita. Anzi, è tutta lì sul tavolo e la sensazione è che le giravolte dei protagonisti si infrangano sull’unico scoglio che non conosce licenze poetiche: i numeri.

L’idea del presidente dimissionario, Giuseppe Conte, e dei suoi luogotenenti era quella di blindarsi con i «responsabili» rendendo Matteo Renzi e Italia viva irrilevanti: se tornano all’ovile col capo chino bene, saremo di più, altrimenti ce ne faremo una ragione. Ma la ricerca delle auree pepite - nonostante la costituzione al Senato del nuovo gruppo dal nome wertmulleriano «Europeisiti-Maie-Centro democratico» - non è andata a buon fine.

Ennio Flaiano avrebbe versato fiumi di inchiostro su questo safari «grave ma non serio» in cui non ci siamo fatti mancare nulla: dal gol all’ultimo minuto di Lello Ciampolillo, con tanto di Var, ai tormentati ripensamenti di Gino Vitali, «responsabile» per una notte e poi tornato alla casa del padre, giusto per citare due vicende pugliesi. Di fatto, però, la realtà è una sola: a essere decisivo è ancora Matteo Renzi i cui voti e i cui senatori servono come l’acqua nel deserto. L’ex rottamatore, al momento, tiene le carte coperte e continua a battere il tasto dei contenuti, pur sapendo benissimo che - ahinoi - la politica si fa coi nomi più che con le idee.

E quindi siamo sempre lì: Conte sì o Conte no?

Sbloccare il premier significa far nascere il Ter o il Bis bis in un battibaleno, rimandare vuol dire lasciar tutti nel pantano fino a nuovo ordine. E il nuovo ordine, qualora Roberto Fico, per la seconda volta nella sua vita politica, fallisse nell’impresa di costruire un fronte giallorosso, potrebbe essere quello di metter su un governo di unità nazionale, affidandolo a un grande nome, a una «riserva eccellente» della Repubblica.

Per riprendere una citazione antica, riportandola ai fatti di casa nostra, c’è un fantasma che si aggira per l’Italia. E non è lo spettro del comunismo, tutt’altro. Ma è qualcuno che in tanti - compresi i post-comunisti - potrebbero gradire e cioè l’ex presidente della Bce Mario Draghi. Entrato nel cono d’ombra per un mesetto, dopo il gran battage estivo, ora è tornato al centro della scena e il suo nome è sulle labbra di molti.

Naturalmente la parola d’ordine, da destra a sinistra, è quella di «non tirarlo per la giacca». E quindi tutti lo tirano da mane a sera al punto che, ormai, far di conto non è difficile: Draghi piacerebbe certamente al Pd, a Forza Italia, ormai lanciatissima, e a tutti i cespugli europeisti in cerca d’autore. Ma piacerebbe moltissimo anche a Renzi il quale, a questo punto, potrebbe rilanciare la questione del Mes sanitario trovando proprio in Supermario la sponda più adatta per mettere gli euroscettici alla corda. Chi resta fuori dal giro? Fratelli d’Italia che suona soltanto lo spartito del voto, la Lega in evidente imbarazzo fra l’integralismo meloniano e il possibilismo berlusconiano. E poi il Movimento 5 Stelle, riconvertitosi sì sulla via di Ursula, ma comunque ben intenzionato a marcare ancora una distanza dagli europeisti più europeisti del reame.

Durante il primo giro di consultazioni di Fico, il capo politico pentastellato, Vito Crimi, ha posto la questione quasi immediatamente: «Abbiamo chiesto che siano accantonati alcuni temi, strumentali e divisivi, penso al Mes». Renzi, qualche ora dopo, non s’è sfatto sfuggire l’occasione di rilanciare: «Il Mes? Noi siamo disponibili a discutere, lo siano anche gli altri». Come dire, 1-1 e palla al centro. Chissà per quanto altro tempo.

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