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giuseppe de tomaso
03 Dicembre 2020
Più passa il tempo, più viene da chiedersi dove si troverebbe oggi l’Italia senza i vincoli dell’Unione Europea. La risposta non ha bisogno di giri di parole: l’Italia si ritroverebbe in Sudamerica, tra i Paesi più dissestati del pianeta, non soltanto sul piano finanziario.
Del resto, se nonostante la normativa comunitaria e i doveri di bilancio ivi stabiliti, il Belpaese si distingue per il terzo debito pubblico del globo, figuriamoci quale sarebbe sarebbe adesso la sua condizione generale senza gli obblighi previsti dai trattati europei. Meglio soprassedere.
Eppure, nonostante tutto, l’Italia si comporta verso l’Europa come un bambino viziato e capriccioso, mai contento dei regalini di Natale ricevuti da mamma e papà.
La vicenda del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) va al di là della più fertile e vivida immaginazione. Anziché approfittare immediatamente dell’opportunità dei 37 miliardi di euro per far fronte alla più grave emergenza sanitaria che si ricordi, la politica italiana ha cincischiato, ha pasticciato, ha litigato, ha eretto muri, ha rifiutato. Morale: occasione persa. Eppure i vantaggi del Mes sanitario erano palesi, e meritavano il consenso generale, specie in una nazione a corto di quattrini e con la sanità sprovvista di medici (specializzandi del 2020 tuttora congelati in piena pandemia), apparecchiature e infrastrutture.
Macché, manco fossimo un Paese stracolmo di forzieri d’oro, abbiamo respinto con sdegno i soldi del Mes, salvo farci il segno della croce negli ospedali al collasso per colpa del Covid.
Se il Mes sanitario è stato respinto come Satana (vade retro), peggio ancora sta per andare al Mes tout court, ovvero alla riforma del meccanismo salva-stati, che ovviamente richiede i dovuti impegni di rendicontazione delle spese (tasto dolente per la tradizione italica), oltre al fatto che introduce una sorta di «paracadute finale» ad opera del Fondo di risoluzione unico delle banche. Già questo scudo bancario avrebbe dovuto incontrare la migliore predisposizione da parte romana, alla luce delle «sofferenze» che angustiano il settore creditizio del Belpaese. Invece, ancora una volta, si rischia il colpo di scena e cioè il voltafaccia di uno (l’Italia) dei soci fondatori dell’Europa comunitaria, che fino a pochi lustri addietro brillava per convinto europeismo.
Ma a rendere ancora più aggrovigliata la matassa Mes contribuisce uno fra i vizi atavici della politica nostrana: quello di subordinare le questioni internazionali alle questioni nazionali, i problemi economici (europei) ai problemi politici (italiani). E non è finita qui. A loro volta i problemi politici nazionali vengono sottomessi ai giochi di coalizione, che a loro volta vengono sottoposti alle manovre di partito, che a loro volta vengono condizionate dai volteggi di corrente, che a loro volta vengono alimentati da calcoli di sottocorrente e camarille varie. Sembra di rielaborare, stavolta col frasario politico, il testo de «Alla fiera dell’Est», la celebre canzone di Angelo Branduardi, una sorta di «matrioska lirica», che, però, a differenza della «matrioska politica» made in Italy, ha un finale consolante, dato che, nel disco del cantautore, il Signore uccide l’«angelo della morte» riportando il brano al punto di partenza.
Ha destato profonda sorpresa il no di Berlusconi alla riforma del Mes, un no, fino a pochi giorni addietro, ritenuto improbabile, se non impossibile, alla luce della linea filo-europeista della formazione forzista, e dei rapporti sempre più complicati tra il Cavaliere e il Capitano (Salvini). Invece, proprio da Berlusconi è arrivato un atteggiamento inatteso, in linea con la scuola sovranista da lui avversata.
Inutile dire che, al riguardo, le interpretazioni si sprecano. Chi tira in ballo le questioni aziendali di Berlusconi. Chi gli assetti interni al centrodestra.
Chi la situazione alla regione Lombardia, dove la Lega di Salvini potrebbe fare a meno della presenza forzista nella giunta di Attilio Fontana. Insomma, la linea filo-leghista di Berlusconi sul dossier Mes sarebbe figlia di una nuova valutazione, stavolta legata ai rapporti di forza, centrali e periferici, all’interno del centrodestra. Chissà. Sta di fatto che gli equilibri politici nazionali sembrano interferire sistematicamente nelle scelte di caratura internazionale.
Non è una trama, uno spettacolo, di cui andare fieri, soprattutto perché sembra ribaltare la lezione di Alcide De Gasperi (1881-1954). Per lo statista della Ricostruzione la politica estera era la politica-politica, vale a dire la Politica. Poi, in ordine di importanza, sottostavano la politica interna, le strategie di partito, le posizioni dei gruppi, le ambizioni personali. Ora i criteri di valore si sono rovesciati. Non a caso ne fa le spese l’europeismo, la ragione di vita del trentino De Gasperi e del pugliese Aldo Moro (1916-1978), la cui vita politica ebbe due obiettivi primari: rafforzare la nostra democrazia parlamentare, ancorare sempre di più l’Italia all’Europa.
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