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Il dovere di fare presto per salvare la Puglia verde

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

ulivi colpiti da xylella

«Sappiamo solo che se proseguirà il surplace di questi anni, la prospettiva di ritrovarci in un paesaggio lunare risulterà tutt’altro che fantasiosa»

Martedì 11 Dicembre 2018, 15:54

Chissà cosa direbbe oggi quel «popolo di formiche», descritto da Tommaso Fiore (1884-1973), che trasformò le terre aride di Puglia in giardini agricoli divisi da muretti e uniti dall’ammirazione generale. Forse incrocerebbe le dita confidando nella benevolenza del Signore. La Puglia verde, la Puglia da esportazione e delle campagne da cartolina, rischia la dissoluzione se il flagello dell’ulivo estenderà la sua devastazione, che evoca la distruzione già provocata dal «flagello di Dio», l’unno Attila (406-453), ai danni dell’impero romano.
La Puglia non è solo l’olivicoltura. La Puglia è l’agricoltura italiana. Le altre regioni, ci si perdoni l’orgoglio territoriale, sono la serie B, sul piano agricolo, rispetto al Tacco d’Italia.

L’ortofrutta pugliese è uno spettacolo. Le sue ciliegie sono impagabili. La sua uva da tavola ha un profumo che le boccette di Gucci o Armani se lo sognano. Per non dire del profumo delle albicocche, degli agrumi, delle pesche e delle percoche. Il marchio Puglia è una garanzia, vuol dire fiducia innanzitutto per i consumatori, come recitava il fortunatissimo spot di un’azienda casearia lanciata da Carosello.


Ora. Tutto questo ben di Dio potrebbe avere i decenni o, peggio ancora, gli anni contati, se la Xylella continuerà a fare il cattivo tempo, a imperversare senza che gli addetti ai lavori (soprattutto istituzionali) predispongano un pur minimo piano di contrasto. È vero. La Xylella sembra imbattibile. E forse lo è. Di sicuro, però, sarebbe o sarebbe stato possibile limitare i danni del contagio. Cosa che finora non è avvenuta, perché la miscela semi-ideologica tra l’oscurantismo, il cospirazionismo e il «politicamente corretto» imposto dalla museificazione dell’esistente, ha fabbricato l’unico strumento che in Italia non conosce mai crisi: il rinvio. In questo caso: meglio rinviare ogni intervento radicale, chirurgico, nei campi d’ulivo, per non urtare la suscettibilità delle frange più estreme dell’ambientalismo. Alcuni pasdaran dell’intoccabilità degli uliveti malati hanno addirittura negato l’esistenza stessa del fattore Xylella. Cosicché quando qualcuno, come il generale Giuseppe Silletti, ha presentato una strategia di contenimento razionale e credibile ha dovuto sùbito arrendersi di fronte al fuoco di artiglieria partito da più parti.


Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur (mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata): ormai la frase di Tito Livio (59 avanti Cristo - 17 dopo Cristo) è nota pure negli asili nido, visto che viene ricordata in tv tutte le volte che la classe politica o i decisori di turno si perdono in chiacchiere in spregio alle emergenze e al principale propulsore di un’economia: il fattore tempo. Il tempo è scarso come gli spazi terreni e limitato come i beni naturali. Di conseguenza va trattato con il riguardo che si deve a ogni risorsa ridotta e preziosa. Invece.
Invece il tempo viene trattato, nel Palazzo, come una variabile indipendente. Ma la Xylella se ne infischia del tempo, né mostra alcun ossequio nei confronti dei temporeggiatori chiamati o eletti per prendere decisioni. I calcoli elettorali fanno la loro parte nell’ispirare gli strateghi dell’indecisione. Meglio non sfidare nessuno, meglio evitare contestazioni di piazza, anche quando sono promosse da minoranze. Le minoranze rumorose, di solito, ricevono più ascolto e considerazione delle maggioranze silenziose.


Non possiamo prevedere entro quanto tempo l’avanzata del batterio potrà determinare quella desertificazione rurale, il cui avvento i futurologi di qualche lustro addietro collegavano ai capricci del clima. Sappiamo solo che se proseguirà il surplace di questi anni, la prospettiva di ritrovarci in un paesaggio lunare risulterà tutt’altro che fantasiosa.
Purtroppo, la Xylella, è il caso di dire, gioca a tutto campo. Non si limita a colpire solo l’ulivo, come confermano le esperienze in America e in Spagna dove il batterio ha aggredito altri tipi di piante, per ultimo l’albicocco. Un bollettino di guerra che scoraggia pure gli investitori ottimisti fin dalla nascita. È sufficiente rivolgere qualche domanda ai vivaisti più attivi per apprendere come il sentimento di sfiducia e preoccupazione nei confronti delle coltivazioni agricole si vada diffondendo come il virus influenzale, e che la voglia di piantare alberi, che costituisce il tasso di vitalità di un territorio, si vada afflosciando come un sacco di patate.


Per arginare la Xylella non esiste una medicina risolutiva. Ci sono però, a detta degli esperti pratici e teorici, rimedi che possono fermare o frenare il contagio: dallo sradicamento degli alberi infetti alle buone pratiche agricole imposte davvero con forza; dall’utilizzo di macchine moderne all’introduzione di qualità d’olivo più resistenti; dai reimpianti agli innesti guidati da tecnici di provata professionalità.
L’unica soluzione inaccettabile è l’inazione, la rassegnazione, il fatalismo. La natura non è benigna. Da sempre l’uomo ha cercato di difendersi dalle trappole del suo habitat circostante. Grazie al progresso tecnico e scientifico, l’agricoltura ha smentito i profeti di sventura che ritenevano impossibile il sostentamento alimentare di 200-300 milioni di persone nel mondo. Oggi sono più di 7 miliardi gli esseri umani che hanno risolto il problema della nutrizione, anche perché i concimi hanno intensificato la produzione e gli agrofarmaci hanno saputo tutelare la salute delle piantagioni.
Non è saggio tornare indietro, all’arcadia, al piccolo mondo antico. Primo, perché sarebbe un regresso innanzitutto culturale. Secondo, perché sarebbe una retrocessione soprattutto materiale.


Ecco perché chi ha responsabilità politiche e tecniche, a Roma e in periferia, dovrebbe ignorare, anche nel settore agricolo, le dietrologie complottistiche che mirano a inventare nemici e a congelare alleati, per allestire sùbito un fronte comune (chiuso ai negazionisti) in grado di arrestare il cammino del nemico pubblico numero uno delle campagne pugliesi.
È un appello che parte dai campi e che dovrebbe essere ascoltato senza se e senza ma. Diversamente da altre aree del Sud, la Puglia non è un paradiso abitato da diavoli, ma un paradiso abitato (prevalentemente) da angeli. Non merita, la nostra regione, di annullare i miracoli del suo «popolo di formiche».

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