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Alleanza progressista, modello europeo

 
Giovanni Valentini

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Giovanni Valentini

Pd

«Che cosa può fare nel frattempo il Partito democratico? In primo luogo, né cambiare nome né sciogliersi, ma semmai diluirsi in un soggetto politico più ampio e più articolato a livello europeo»

Mercoledì 26 Settembre 2018, 16:05

All’inizio di settembre, di fronte al letargo in cui versa tuttora il Partito democratico, avevamo auspicato su questo giornale la formazione di un’Area Progressista, “un’alleanza d’ispirazione europeista, magari trasversale e transnazionale, per respingere i rigurgiti del nazionalismo che ha già provocato tanti conflitti, dolori e rovine al nostro Continente nel corso della sua storia”.
La settimana scorsa è stato il segretario del Pd, Maurizio Martina, a proporre una grande coalizione anti-sovranista, dai liberali dell’Alde alla Sinistra Europea, dai Verdi al Partito socialista europeo fino al Movimento En Marche di Emmanuel Macron. E domenica, dalle colonne di Repubblica, è toccato a Eugenio Scalfari lanciare un accorato appello sotto il titolo “Si faccia subito un movimento europeista o sarà la fine”.

La fine di che cosa? Dell’Unione europea, innanzitutto. Ma anche di quel modello di sviluppo economico-sociale che il Vecchio Continente ha saputo instaurare da settant’anni a questa parte nel segno della democrazia, della libertà e della pace. Vale a dire il welfare state, la solidarietà, l’equità, la tolleranza, la convivenza civile, tutti valori a cui ormai siamo abituati e che però rischiamo di compromettere o di perdere nelle prossime elezioni europee di maggio, sotto l’onda d’urto del nazional-populismo.
È chiaro a tutti che oggi il confine non passa più fra destra e sinistra, bensì fra progressisti e reazionari: da una parte, chi vuole procedere sulla strada del progresso e della giustizia sociale; dall’altra, chi vuole “reagire” contro il sistema attuale per regredire nella cosiddetta “decrescita felice” (M5S) o per imporre una stretta plebiscitaria e autoritaria (Lega). E allora, alla vecchia sinistra idealista e massimalista rimane evidentemente poco spazio per coltivare la sua utopia dell’uguaglianza assoluta, mentre una sinistra moderna può e deve continuare a lavorare per ridurre sempre più le disuguaglianze fra ricchi e poveri, abbienti e meno abbienti, pur nella consapevolezza che non potranno mai essere annullate completamente. Questa è oggi – per l’appunto - la mission di un’Alleanza Progressista, composta dai liberal-democratici e dai liberal-socialisti.
Insieme al Pd che è tuttora il partito maggiore del gruppo socialista al Parlamento di Strasburgo, ne fanno parte di diritto il presidente francese Macron e il primo ministro greco Tsipras, con il premier spagnolo Sanchez e il collega portoghese Costa. L’Europa diventa così il terreno di confronto o di scontro fra due schieramenti, come nelle storiche elezioni del 25 aprile ’48, le prime dopo la caduta del fascismo, quando gli italiani furono chiamati a scegliere fra gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica, tra l’economia di mercato e quella di piano, fra la democrazia e il totalitarismo. Una scelta di campo e di sistema, dunque.
Che cosa può fare nel frattempo il Partito democratico? In primo luogo, né cambiare nome né sciogliersi, ma semmai diluirsi in un soggetto politico più ampio e più articolato a livello europeo. E poi, celebrare finalmente il suo Congresso della verità, per ridefinire la propria identità politico-culturale e individuare una nuova leadership, condivisa e riconosciuta. Soltanto così potrà partecipare e contribuire a pieno titolo all’aggregazione di un’Area Progressista.
Non è tanto una questione di partito, quanto piuttosto di popolo: cioè degli oltre 6 milioni di elettori che alle ultime politiche hanno assegnato al Pd il 18,7% dei voti, un milione più dei consensi attribuiti alla Lega il 4 marzo scorso (17,3%). Se il Partito democratico dovesse sciogliersi o scomparire, per chi voterebbero quei cittadini? Nelle mani di chi potrebbero affidare le loro speranze, le loro aspettative, le loro domande di giustizia e libertà? E a distanza di sei mesi, di fronte ai modesti risultati del governo giallo-verde, alle sue contraddizioni interne e alle sue inadeguatezze, quanti ex elettori democratici e quanti astenuti non sarebbero disposti a ridare il proprio voto al Pd?
Sull’onda dei sondaggi favorevoli, Matteo Salvini può anche cantare vittoria prima di averla conquistata. Ma la sua rischierebbe di essere la classica “vittoria di Pirro” se, alla fine, il saldo complessivo della coalizione di centrodestra fosse inferiore al totale dell’attuale 37%, per effetto di un travaso di voti da Forza Italia alla Lega. La nuova “discesa in campo” di Silvio Berlusconi sembra già annunciare, però, sorprese e colpi di scena. Per quanto la “questione migranti” e l’ostilità alla moneta unica possano soffiare nelle vele di Salvini come un vento propizio, la candidatura europea dell’ex Cavaliere non è affatto da sottovalutare: a lui non mancano i mezzi né gli argomenti per contrastare e contenere l’ascesa del suo alleato-avversario. Tanto più che quest’ultimo tende a circoscrivere il recente Patto di Arcore ad “accordi solo locali”. Ma l’intesa sulla presidenza della Rai non è un fatto locale né tantomeno può essere considerata tale quella sulla lista unitaria per le elezioni del Parlamento di Strasburgo, nelle quali si vota con il sistema proporzionale.
“One week is a long time in politics”, una settimana in politica è un periodo lungo, avvertiva l’ex primo ministro inglese Harold Wilson. E da qui a maggio, di settimane ne devono passare ancora molte.

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