«L’acqua che non è fatt ‘ncil sta». Ho architettato una versione del granello di saggezza popolare che mettesse d’accordo le innumerevoli varianti dei nostri dialetti pugliesi. Comunque, la traduzione è semplice e intuibile.
«L’acqua che non è piovuta in cielo sta». Un fatalismo sapiente annidato nella contemplazione di quella nuvolaglia apparentemente innocente che si assiepa nella concavità del cielo e sembra pigra e reticente a scatenarsi in temporali, pacificamente ritrosa e bonaria. Un fatalismo, però, fatto esperto dalle lunghe giornate di zappa e di orizzonti scrutati con saggezza che detta la sentenza inappellabile che riposa nell’esperienza: l’acqua che non è piovuta sta in cielo. Dunque, prima o poi pioverà. O che? Non stazionerà mica per sempre a farci ombra e a schermare i raggi del sole sotto forma di nuvole e cirrocumuli. La regola prevede, almanaccando, che sempre vi siano sole e pioggia, vento e calure, neve, grandine, gelo, ma, anche zefiri sereni e tepori sensuali e canicole. E pioverà, dunque. Prima o poi, pioverà. Questa la pacata certezza che archivia il solido pensiero contadino consolidato da certezze naturali.
Non ci voleva, dunque la preveggenza di un astronomo o l’occhio lungo del meteorologo per prevedere l’acquazzone che ha investito Bari venerdì scorso. Sinonimo di acquazzone, in caso di necessità di mettere le mani avanti in cerca di scusanti: nubifragio. O il terribile e sconsigliatissimo «bomba d’acqua».
E chi avrebbe dovuto, non potuto, proprio dovuto prevedere un temporale, anche un fortissimo temporale prima del solstizio d’estate? Tutti i cittadini muniti solo di ombrello, ma anche gli amministratori, i responsabili della sicurezza pubblica, le autorità. Ma mentre il cittadino con l’ombrello, provvede saggiamente ad aprirlo se proprio deve mettere il naso fuori di casa, l’amministratore ha ben altre incombenze. E, in questo temporale, per amministratore si deve intendere il ministero della Giustizia. Non il sindaco che nel caso dell’alluvione avventatosi sulla tendopoli giudiziaria è vittima di decisioni confuse e contraddittorie di altri.
Il nubifragio ha inondato la città e le periferie, ha fatto tracimare acqua e fanghiglia dovunque, il traffico si è rivolto contro sé stesso, come sempre in questi casi. Il Comune ha fatto tutto il possibile, mi dicono. La popolazione ha pazientemente aspettato che “spiovesse». Ma qualcuno avrebbe dovuto pensare a quella Giustizia che, annidata in una tendopoli, metaforicamente, faceva acqua da tutte le parti.
Ma avrebbe dovuto pensarci prima, quando l’acqua che non era piovuta, in cielo stava. La Giustizia intesa come metonimia e, dunque, il Palazzo di Giustizia che, a Bari, si è ridotto a rifugiarsi in un camping come i villeggianti avventurosi e bighelloni o i terremotati. L’acqua «che in cielo stava» non ha perdonato e si è avventata sulle tende con la stessa furia che ha riservato a passanti, case, orti e giardini. E ci sarebbe mancato che avesse chiuso un occhio proprio con l’esercizio della Giustizia che, opportunamente ricorda nei suoi rituali sacrosanti che «La legge è uguale per tutti». Anche la pioggia.
Un tempo il Tribunale, ovvero la casa dove si esercitava la Giustizia, oltre che la gestione degli affari pubblici e si praticava la contabilità ragionieristica dei rapporti del potere con i cittadini prendeva il nome di Palazzo della Ragione. A parte il fascino delle etimologie va ricordato che era l'edificio pubblico nel quale i giudici rendevano ragione ai cittadini delle loro doglianze, mediante le sentenze civili o penali. Per questo l’epiteto era usato con convinzione: Palazzo della ragione.
La tentazione di allargare il toponimo, nel suo significato simbolico, viene. Possibile, dico, che nessuno abbia ragionato quando si è deciso di trasferire armi e bagagli (poche le armi) un intero complesso dell’esercizio della Giustizia in una tendopoli?
E, visto che ne stiamo parlando, non mi faccio una ragione del fatto che proprio la costruzione di un intero palazzo destinato ad ospitare i tribunali di una città grande come Bari, di una provincia come quella che a Bari converge, non sia stata sottoposta ad un controllo doveroso e abbia dato segni di instabilità gravissime, al limite del rischio di crollo poco tempo dopo la sua consegna. Dico la costruzione, ma dovrei dire la progettazione, le gare di appalto, le assegnazioni dei lavori, i controlli di legge, la manutenzione di un enorme caseggiato, possibile che non non siano stati sottoposti ai controlli ferrei e civili che noi che non vogliamo aver per forza ragione, noi cittadini, avevamo diritto di aspettarci dal potere politico e amministrativo?
Il temporale ha sommerso il campeggio e le immagini impietose della cronaca mostrano computer che fanno il pediluvio, archivi in bagnarole, interi procedimenti annacquati, carteggi annegati nella fanghiglia, faldoni galleggianti. Una metafora spaventosa che fa titolare su questo giornale «Piove sempre sul bagnato» l’articolo indignato, giustamente, di Carmela Formicola. La giornalista, armeggia abilmente con metafore e giochi linguistici, come, del resto, sto facendo anche io e parla di «palude della Giustizia», di «Giustizia annegata», «corpi di reato bagnati». «Singing in the rain». Concesso il ripescaggio dalla pozzanghera dei ricordi del vecchio successo sanremese di Domenico Modugno con «Piove», non eccelso motivo musicale con un titolo che sembrava una constatazione. Il concorso alla battuta comica è aperto.
Intanto, sarebbe cosa buona e giusta che ci facessero sapere i nomi dei responsabili del furto perpetrato ai danni dei cittadini con l’affare edilizio che ha riguardato il nuovo tribunale pericolante. Se il Palazzo della Ragione vacilla, ci troviamo di fronte ad una metafora orribile. Oso sperare che la giustizia sia come la pioggia: «l’acqua che non è piovuta sta in cielo».
Michele Mirabella