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Il buon gusto è una virtù specie in un'aula scolastica

 
Antonio Biasi

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Antonio Biasi

Liceo scientifico «Scacchi», corso Cavour, 241 a Bari

Liceo scientifico «Scacchi» di Bari

«La scuola non è una spiaggia e si deve andare in aula vestiti in modo adeguato». Il tormentone non passa d'attualità, ma la circolare di qualche dirigente scolastico accende gli animi

Lunedì 14 Maggio 2018, 18:55

«La scuola non è una spiaggia e si deve andare in aula vestiti in modo adeguato». Il tormentone non passa d’attualità, ma, periodicamente, la circolare di qualche dirigente scolastico accende gli animi. Succede anche in questi giorni, dopo le iniziative di alcuni capi d’istituto che hanno proibito o raccomandato agli studenti di evitare look «estremi».

È accaduto anche al liceo scientifico «Scacchi» di Bari dove, quello che una volta veniva chiamato «il preside», Giovanni Magistrale, ha inviato una circolare che ricordiamo e riproponiamo: «Con il sopraggiungere delle giornate calde si verifica di frequente che molti studenti siano tentati di allentare per comodità i freni inibitori relativi all’abbigliamento, e così capita di assistere talora alla visione di nudità ascellari e inquinali, di pancini scoperti, gambe pelose maschili in mostra, sandali infradito, canottiere succinte, e altro genere balneare». Lo stesso dirigente nel tentativo di limitare le polemiche ha precisato che «le sue raccomandazioni non vengono da un sussulto di puritanesimo vittoriano, ma dalla constatazione che comportamento e abbigliamento sono sempre in rapporto alle circostanze e ai luoghi: una cosa è la spiaggia, un’altra è una chiesa. La scuola non è una spiaggia, certo non è nemmeno una chiesa, ma ci va molto vicino, se è vero che culto e cultura hanno la stessa radice, e la scuola è sede di quel culto laico che è rappresentato dal sapere, dall’insegnamento, dall’educazione». La direttiva del preside Magistrale è stata contestata come pure non sono piaciute quelle degli altri colleghi che la pensano come lui. Tanto che alcuni, e non solo studenti, hanno parlato, con enfasi eccessiva, di limitazione alla libertà personale di esprimersi anche attraverso l’abbigliamento.

Il preside Magistrale e gli altri sodali hanno esagerato con il rigore? Non ci sembra. Nessuno pensa di mettere i mutandoni alle statue «nude», anche se talvolta, pur per altre ragioni, questo accade ed è capitato spesso anche nel passato. Ma, se ci si guarda intorno, il desiderio di una «regolatina» non sarebbe una cosa del tutto sbagliata. Non per l’offesa alla pubblica morale, naturalmente, ma per l’offesa al buon gusto. Certo. quest’ultima non è contemplata dai codici, però...

Basta qualche sguardo per strada ma anche negli uffici pubblici e privati, negli ospedali, nei tribunali e ovunque si voglia. Non è tanto un problema di centimetri, coperti o scoperti che siano, ma di decoro e buona educazione, termini trapassati e politicamente scorretti ma, chissà, evocarli ogni tanto magari non guasta. Come insegna l’Ecclesiaste c’è un tempo per ogni cosa, ma c’è anche un abbigliamento per ogni circostanza. Se ciabatte, short e magliettine vanno benissimo in spiaggia, stonano certamente in un ufficio e naturalmente a scuola, per tornare al punto di partenza. Certo la preparazione di uno studente o di un professore (perché anche loro non sono esenti da abbigliamenti fuori luogo) non si misura dal modo di vestire, ma un po’ di attenzione non guasterebbe. Ci sono paesi, non pochi, dove a scuola si va con una sorta di uniforme. Non c’è bisogno di arrivare a tanto, ma un po’ di riguardo verso il prossimo non è poi sbagliato. E non c’è bisogno di parlare di attentato alla libertà personale o, alla Costituzione. La libertà è una cosa molto più seria e importante per essere tirata in ballo in simili diatribe. Semplicemente riscopriamo il buon gusto. In fondo, lo stile italiano è da sempre famoso nel mondo. Non roviniamolo indossando fuori tempo massimo una canottiera traforata e le infradito di gomma. «Lo stile non è solo apparenza ma il contenuto con tutti i simboli visibili ad esso corrispondenti» Lo scriveva nel secolo scorso Nikolaj Ivanovic Bucharin, non un dandy decadente, ma uno dei padri della rivoluzione russa, poi travolto anche lui, fra i tanti, dalle purghe staliniane. Forse ogni tanto bisognerebbe ricordarsi delle parole di Bucharin. In fondo, Lenin lo definiva «il figlio prediletto del partito». Non un reazionario.

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