Le nostre città stanno diventando sempre più dense, rumorose e impermeabili, e qui il verde urbano si rivela non solo un bene estetico o ambientale, ma una vera e propria infrastruttura sociale. I numeri lo confermano: secondo il World Urbanization Prospects delle Nazioni Unite, entro il 2050 quasi il 70% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane. Questo processo di urbanizzazione accelerata impone una riflessione profonda. La crescente solitudine urbana è oggi una delle conseguenze più drammatiche. In questo scenario, la natura in città assume un ruolo decisivo per il benessere mentale, la coesione sociale e la qualità della vita.
Uno studio pubblicato su The Lancet Planetary Health ha mostrato che vivere in prossimità di spazi verdi riduce del 13% il rischio di depressione. Ma il dato più interessante è che questi benefici sono ancora più evidenti nei contesti socioeconomicamente svantaggiati. Una revisione sistematica pubblicata su International Journal of Environmental Research and Public Health, ha evidenziato come le comunità marginalizzate siano quelle che traggono i maggiori benefici da parchi e spazi verdi accessibili, con riduzione dello stress, miglioramento della salute mentale, aumento dell’attività fisica, rinforzo delle reti sociali. Eppure, sono proprio questi territori a essere più spesso privi di natura urbana. È il fenomeno dell’urban forest inequity, in cui le diseguaglianze strutturali nella distribuzione di alberi e spazi verdi amplificano la fragilità delle comunità.
Secondo un rapporto dell’Environmental Protection Agency statunitense, le aree a reddito più basso presentano fino al 42% in meno di copertura arborea rispetto ai quartieri più benestanti. Un dato che ha un impatto diretto e misurabile sulla salute: nelle zone con meno verde urbano, le temperature possono essere fino a 7°C più alte d’estate e l’incidenza di malattie respiratorie è significativamente maggiore. In Italia, il rapporto Ecosistema Urbano di Legambiente mostra come molte grandi città italiane non raggiungano nemmeno il 20% di copertura arborea, con ampie disparità tra centro e periferia. Ma il verde è anche uno spazio relazionale. Uno studio pubblicato su BMC Public Health ha confermato che la qualità del verde incide profondamente sulla sua funzione sociale. Non basta piantare alberi, servono panchine, percorsi accessibili, aree gioco, illuminazione, attività culturali.
In presenza di questi elementi si creano occasioni informali di incontro, si rafforza il senso di comunità e si combatte la solitudine. Secondo il Rapporto BES 2023 dell’Istat, oltre 8 milioni di italiani dichiarano di sentirsi frequentemente soli, un dato in aumento soprattutto tra giovani adulti e anziani. La solitudine non è più solo una condizione emotiva, ma una questione di salute pubblica. Studi epidemiologici hanno associato l’isolamento sociale a un incremento del 29% nel rischio di malattie cardiache e del 32% per l’ictus. È in questo contesto che emerge la nozione di «lonelygenic environments», ovvero contesti urbani che riducono le opportunità di relazione e rafforzano la frammentazione sociale.
Uno studio condotto in Australia nel 2022, ha fornito una delle prove più solide di questo legame. Analizzando un ampio campione di residenti, ha scoperto che vivere in un’area con almeno il 30% di verde entro un miglio dalla propria abitazione riduce del 26% il rischio di solitudine nella popolazione generale e addirittura del 52% tra chi vive da solo. Un risultato che sottolinea il potenziale trasformativo della natura urbana.
Esperienze concrete lo dimostrano. A Philadelphia, un progetto di urban greening, ossia la trasformazione di lotti abbandonati in giardini pubblici, ha portato a una riduzione del 41% dei sintomi depressivi e del 51% del senso di inutilità tra i residenti coinvolti.
In Europa, numerose città stanno sperimentando strategie simili. A Genova, nel quartiere di Prè, l’Orto Collettivo ha trasformato uno spazio degradato in un luogo di incontro e integrazione tra migranti, anziani e persone fragili, promuovendo agricoltura urbana, autonomia e solidarietà. Nel Regno Unito, il National Health Service promuove ormai stabilmente il social prescribing, in cui i medici prescrivono attività all’aperto, passeggiate nei parchi, partecipazione a orti urbani, come forma di prevenzione e cura per persone a rischio di isolamento. Anche in Italia si iniziano a muovere i primi passi in questa direzione, con progetti-pilota di medicina territoriale che integrano il verde come fattore di salute. Un approccio innovativo e sistemico arriva dalla regola del 3-30-300, proposta dall’esperto di forestazione urbana Cecil Konijnendijk: avere almeno tre alberi visibili da ogni abitazione, il 30% di copertura arborea nel quartiere e un’area verde accessibile entro 300 metri. Non è solo un criterio urbanistico, è un obiettivo di salute e giustizia sociale. Uno studio dell’Università di Barcellona ha dimostrato che l’adesione a questo standard potrebbe prevenire fino a 43.000 morti premature l’anno nelle città europee. Investire nel verde urbano, soprattutto in aree periferiche e svantaggiate, non è un lusso né un gesto estetico. È una scelta politica, sanitaria e sociale. È la risposta concreta a una città che spesso divide, esclude, isola. La natura urbana, se progettata con cura, inclusione e partecipazione, è una delle infrastrutture più efficaci per ricucire il tessuto sociale, promuovere la salute mentale, combattere le disuguaglianze e ridare senso alle nostre vite condivise.