Una festa planetaria. Il riconoscimento della Cucina Italiana come Patrimonio Immateriale Unesco è stato celebrato ovunque, anche oltreoceano, fino a New York City, dove la comunità di ristoratori italiani è fra le più imponenti. Un traguardo storico per il nostro patrimonio, sia sotto il profilo gastronomico che della valenza culturale e tradizionale. La cucina italiana, infatti, non è soltanto cibo, ma identità, comunità e memoria. E in questo senso, gli ambasciatori italiani nel mondo sono strumenti fondamentali di trasmissione di questa ricchezza. Ne è convinto Alessandro Pendinelli, chef di origini molfettesi, da oltre dieci anni a New York. Vera star dei social e talento apprezzato per i suoi piatti, il cuoco pugliese guida la cucina del ristorante italiano “La Piazza” di New York, dove celebra quotidianamente la tavola italiana e, ovviamente, quella pugliese. Alessandro lo scorso 10 dicembre era nel suo ristorante, nella Grande Mela, dove la festa ha investito ogni angolo e quartiere.
La Cucina Italiana Patrimonio Unesco. Come avete festeggiato a New York la notizia giunta dall’India?
“Quando la notizia è arrivata siamo stati colti da una grande sorpresa. Non immaginavamo che la cucina italiana, nella sua completezza, potesse raggiungere veramente questo traguardo ed essere iscritta nell’elenco dei patrimoni immateriali. Attenzione, non un piatto, non una ricetta, come già accaduto, ma la cucina italiana nella sua totalità. Sorpresi, contenti, grati e fieri di tutto il lavoro che facciamo qui, abbiamo fatto festa. È stata una emozione grandiosa”.
Il ministro Lollobrigida ha detto che la cucina italiana, a differenza del calcio, unisce, non divide. Come è sentita la tradizione italiana da voi italiani che lavorate negli Usa? Quanto si resta veramente fedeli all’identità più autentica del nostro Paese?
“La tradizione italiana da parte nostra - come italiani nati in Italia e trasferiti in America, quindi come migranti – viene tutelata, mantenuta con cura. Cerchiamo di trasferire le nostre tradizioni agli americani, anche se non è sempre semplice, perché bisogna anche andare incontro alle richieste del mercato, ma noi ci proviamo ogni giorno e i risultati arrivano”.
Che responsabilità avvertite come italiani, quindi, nel trasferire questa nostra tradizione?
“Sentiamo il peso e la responsabilità di un impegno difficile, perché le contaminazioni e gli “scopiazzamenti” sono tanti. Così come i cambiamenti. Ma noi italiani siamo attaccati alle nostre radici, e ce la mettiamo tutta a portare nel piatto il meglio, ma soprattutto il vero, delle nostre ricette, specchio e memoria di come abbiamo vissuto in Italia”.
La cucina italiana è amata più dagli italiani o dagli stranieri?
“La cucina italiana è amata da tutto il mondo, non soltanto dagli italiani. A New York, ad esempio, è molto amata, sia dagli americani che dai migranti italiani arrivati nella Grande Mela negli anni Cinquanta, e che qui hanno messo su famiglia”.
Quanta Puglia c’è nella tua cucina? Qualche ricetta pugliese nel tuo menù americano?
“Tantissima Italia e tanta Puglia. Nel mio menù non mancano la burrata pugliese con un contorno di caponata siciliana, le orecchiette con cime di rapa, broccoli, acciughe, pane grattugiato e pecorino, gli spaghetti cacio e pepe con tartare di gambero rosso. Potrei anche continuare”.
Hai anche scritto un libro di ricette italiane in America.
“Ho scritto un libro che parla delle quattro stagioni, per far capire agli americani che va rispettata la stagionalità dei prodotti, anche a New York. Non è possibile mangiare una melanzana tutto l’anno, o un pomodoro oppure una zucca. In Italia noi mangiamo quello che la terra ci dona nelle diverse stagioni. Questo è un concetto che deve ancora essere ben recepito negli Usa”.
Alessandro, per chiudere, quali piatti italiani, gli americani amano di più?
“Questa è una domanda molto ampia. Direi tutti; perché amano l’Italia. Forse, potrei dirvi quali sono i piatti più ordinati in questo momento nel mio ristorante: la cacio e pepe con tartare di gambero rosso, ma anche il ragù al nero di seppia”.
















