Arriva in treno a Bari il Maestro Riccardo Muti, con la moglie e una nipotina. Bari e la Puglia lo attendono per i tre concerti al Teatro Petruzzelli, a partire da oggi (gli altri domani 3 e poi il 4, sempre alle 19, tutti sold out), con la sua Orchestra dei Cherubini, prima orchestra europea di prestigio internazionale ad esibirsi al Politeama dopo il periodo di chiusura causato dall’emergenza sanitaria.
L'arrivo in Puglia sollecita in Muti i tanti ricordi legati alla «sua» Molfetta, al Conservatorio di Bari, ma anche a quel terreno acquistato ai piedi di Castel del Monte, dove – raramente, quando può – il Maestro, direttore dal 2010 della leggendaria Chicago Symphony Orchestra, che gira il mondo portando alto il nome dell'Italia, ammira le orchidee selvatiche e il paesaggio della Murgia in cui nacque il mito di Federico II.
In questa intervista, Muti racconta se stesso, la sua formazione pugliese-napoletana e bacchetta ancora una volta i nostri governi insensibili di fronte allo scempio della musica e della cultura.
Maestro, partiamo dalla Puglia: lei si sente più pugliese o più campano?.
«Mi definisco un apulo-campano, perché sono nato a Napoli da madre napoletana, ma la mia famiglia da parte paterna è pugliese da tempi antichi. Il nome Muti compare già nel '500 con una genealogia decisamente radicata in Puglia. E io spesso dico che il molfettese è una delle lingue che parlo! In realtà sono felice di questi tre concerti al Petruzzelli perché mi permettono anche di tornare qui, persino nel teatro che ho frequentato da studente del Conservatorio di Bari – allora era direttore Nino Rota – e lì sono cresciuto musicalmente, visto che il mio indimenticato maestro Franco Ruggero, mi fece scoprire le orchestre. Io venivo da Molfetta come pianista e non ero abituato al concetto di orchestra: qui, ho compito l'importanza e la bellezza, qui mi si sono aperte le porte di tanta esperienza che poi mi è servita.
E, insieme al Conservatorio Niccolò Piccinni, il Petruzzelli fa parte dei suoi ricordi...
«Fa piena parte, perché al Petruzzelli non ho solo ascoltato il grande Rubenstein da ragazzo, ma ci sono stato, pensi, già all'età di tre anni! Mio padre voleva assistere all'”Aida” e, non potendomi lasciare, mi affidò ad un aiutante di casa che si sedette con me in braccio agli ultimi posti, pronto ad andar via appena avessi dato segnali di impazienza. Ma questi non ci furono e devo dire che poi l'”Aida” mi ha accompagnato in molte parti della mia vita, dal teatro alle esecuzioni sceniche alla discografia, ad esempio con quel cast irripetibile Montserrat, Cabballé, Domingo. Ma i miei ricordi baresi sono anche successivi. Ad esempio, il concerto che tenni con la Filarmonica di Londra in una serata gelida alla Basilica di San Nicola, con i musicisti che tennero il cappotto. Oggi la Puglia ha finalmente attenzione alla sua bellezza straordinaria, alla sua storia e cultura: questo mi fa felice perché un tempo non è stato così. Il mio amore per Federico II si è concretizzato nel 2000 con l'acquisto in Puglia di un piccolo terreno sotto Castel del Monte, con dei vecchi trulli che ho rimesso a posto senza alterare di un millimetro la loro realtà originaria, con sacro rispetto per quella zona e per il suo significato storico. Qualche mente allegra pensò che volessi creare un agriturismo ma io lo facevo e lo faccio per ridare dignità alle costruzioni antiche e per poter vedere o sognare, quando non posso esserci, le orchidee selvatiche che lì fioriscono a maggio».
Il programma dei suoi concerti a Bari: la Sinfonia n. 3, in Re maggiore, D. 200 di Franz Schubert e la Sinfonia n. 9, in mi minore, op. 95 «Dal Nuovo Mondo» di Antonín Dvořák. Come mai questa scelta?
«Schubert rappresenta la grande anima viennese e però si sente il tributo a Rossini, il debito della grande Austria verso la cultura musicale italiana. Poi, la “Sinfonia del Nuovo Mondo” mi è sembrata un titolo importante dopo l'orrenda parentesi pandemica di questo periodo: attraverso la musica, in un nuovo mondo, speriamo».
I suoi 80 anni, il 28 luglio prossimo. Li festeggia con questa tournée insieme all'Orchestra dei Cherubini, ancora una volta nel segno dei giovani e del futuro della musica. Lei spesso bacchetta i politici e i governi per la scarsa attenzione: è servita questa battaglia?
«Continuo a bacchettare e continuo purtroppo a constatare che c'è un degrado mondiale: l'Italia e l'Europa stanno dimenticando il debito con il passato glorioso della musica e della cultura. C'è un disorientamento generale. Vedo in Tv annunciare nuovi programmi musicali in cui spererei di trovare la Musica con la M maiuscola e invece si pensa al pop, al rock e a tutt'altro... Ai miei tempi, si parlava di Bach, Beethoven e Verdi, ora si è ormai abbassato il livello in tutta Europa. Alcune nazioni, come la Germania e l'Austria, tengono molto a tenere alto il livello e la qualità, anche dei teatri. Pensi che in Estremo Oriente, continuano a costruirli, noi li dimentichiamo. In Cina costruiscono sale per la concertistica e Conservatori, si sono accorti che la cultura musicale occidentale è universale e se ne stanno impadronendo. Infatti, molti orientali ormai siedono come musicisti, primi violini, nelle orchestre più importanti del mondo. Noi invece stiamo perdendo terreno. Le scuole musicali si sono qualificate come universitarie. Ma il problema è che mancano le orchestre. Solo Tokyo ne ha 12 sinfoniche, noi ne abbiamo poche e molti teatri chiusi. Domenica sarò a Marradi con l'Orchestra dei Cherubini: il giovane sindaco ha rimesso a posto il piccolissimo teatro e saremo lì per dare un segno. I nostri avi ci hanno lasciato teatri storici e noi li teniamo chiusi: diamoli ai giovani e avremo nuova linfa, non servono solo le grandi cattedrali nel deserto, abbiamo bisogno di dare spazio ai giovani».
In quale modo concreto?
«Prima di tutto aumentare il numero delle orchestre. Una regione come la Puglia dovrebbe averne tante. In Germania, ogni paese, ogni città ha la sua. Se vogliamo educare al senso del bello, dobbiamo progredire in questo modo. Non è un attacco solo al ministro Franceschini, con il quale mi confronto, ma serve che tutto il governo comprenda queste necessità e senta la voglia di voltare pagina, stabilendo ad esempio che l'insegnamento della musica è fondamentale. Sì, i risultati della mia battaglia di tanti anni sono vaghi, ma non mi fermo. I Conservatori sono fiumi in piena che non hanno sbocchi e il fiume in questo modo straripa. Giustamente, ci preoccupiamo di tanti settori dell'economia, ma servirebbe capire che è necessario intervenire anche in altri ambiti. Ad esempio, settori come quello delle bande sono dimenticati. Quando non esistevano i dischi o la radio, sono loro ad aver diffuso la cultura musicale: ricordo che mio nonno cantava a memoria “Traviata” e “Rigoletto”, perché le aveva imparate grazie alla banda. Si pensa sempre a queste realtà come categorie inferiori, ma non lo sono».
La musica ormai viaggia sugli smartphone.
«Sì e con questi telefoni siamo tutti lì, sempre con meno principi umanitari. Così si scende nell'egoismo e nel disinteresse. Chi le parla ovviamente non è San Francesco, sono un uomo con tutti i suoi difetti, ma ho avuto grandi insegnamenti proprio in Puglia, a Molfetta, nel liceo in cui studiò Salvemini. Anche fuori dal liceo: ad esempio ricordo durante le passeggiate nella villa comunale alla ricerca dello sguardo di qualche ragazza, quella scritta sull'orologio “Mortale vos esse docet quae labitura hora”, quel ricordo dell'ora in cui dovete morire: non siete eterni e quindi datevi da fare, era l'insegnamento... E il mio docente del liceo, quando venne a trovarmi mentre ero direttore della Scala, mi ricordava in molfettese, “ricordati di essere uomo, nel senso di “vir”, persona perbene. Ecco, nei miei 17 anni di vita pugliese ho imparato tantissimoe, senza nulla togliere a Napoli, direi che il mio carattere è severo-pugliese».
Tra i tanti concerti che ha fatto nel mondo, tra i tanti premi, c'è ancora un sogno inespresso?
«Il sogno è quello che sto per fare ad agosto al Festival di Salisburgo: ho eredita il concerto che dirigeva von Karajan, visto che eseguirò la “Missa Solemnis” di Beethoven, che è per me l'Everest della musica, una delle opere più impervie da raggiungere. Toscanini l'ha diretta solo due volte. Rendere così bene il dolore mise in imbarazzo persino Rossini, che dovette chiamare la sua solo “Petite Messe”. E' un'opera che ho sempre studiato e che eseguirò per la prima volta. L'offerta mi inorgoglisce e voglio mettere la bandiere sulla vetta di questa messa come un'esperienza umana di tutta la vita, il punto più alto. Sul mio pianoforte ci sono sei spartiti diversi di questa opera, anche una prima edizione stampata nel 1827. Studio, continuo a studiare. Anche questa severità mi viene dalla formazione pugliese. E ne vado fiero».