Etichette, convenzioni, false credenze. Se c’è qualcosa che il mondo della cosiddetta «musica classica» deve farsi perdonare, è tutta quella serie di inibizioni che dal tardo romanticismo in poi hanno preso di mira il pubblico. Chiamato a un immobilismo sacrale durante un concerto, a rispettare il silenzio tra un movimento e l’altro di una Sonata o una Sinfonia. O addirittura a zittire malamente il vicino di sedia che non conosce queste «regole», reo di lasciarsi andare al brivido di un’emozione. Eppure, tutto questo non accadeva ai tempi in cui Mozart e Beethoven eseguivano (o dirigevano) le proprie musiche: anzi, era di uso comune commentare persino a voce alta nel fluire stesso del brano. C’è un equilibrio, però, a cui non si può venir meno: il rispetto per chi suona, bisognoso di concentrazione. Così come di chi, nel pubblico, ha voglia di ascoltare musica senza distrazioni.
Qual è, allora, la soluzione? Se tali questioni sono uno spunto su cui riflettere, ecco che uno spettacolo come «Sconcerto», andato in scena nell’Auditorium Showville di Bari - sold out per l’occasione - ci viene in aiuto per dirimere la questione. Sì, perché Raffaello Tullo, autore della pièce - con la direzione artistica di Giacomo Piepoli - in cui egli stesso interpreta un cialtronesco spettatore che «osa» dirigere un’orchestra con tanto di bacchetta, si è inventato una nuova diavoleria delle sue. Tenendo fede al proprio stile di scrittura, che lo ha reso noto con le performance della Rimbamband (da lui fondata) e con il suo primo spettacolo da solista, «Contrattempi moderni». Ossia prendere un luogo comune, o una situazione in cui due opposti si fronteggiano, e smontare il giocattolo a piacimento: dissacrando e profanando, ma sempre con il gusto di sorprendere e far ridere, con battute semplici quanto fulminanti.
Così, «Sconcerto», è un’altra perla del performer teatrale, che stavolta ha una spalla numerosa e affollata di ottimi musicisti: è l’Orchestra Filarmonica Pugliese (presieduta da Laura Bienna), una compagine in continua crescita, in cui talento ed entusiasmo sono pura benzina per la creatività dello «smilemaker». D’altra parte, «sconcertare» ha una radice etimologica che si sviluppa proprio dal ‘700 in poi, quando «disconcertare» o «togliere dal concerto» significava metaforicamente guastare o disordinare qualcosa. Ed è ciò che accade sul palco, allorché l’orchestra inizia un concerto (con tanto di ouverture di «Cavalleria rusticana» di Mascagni, seguita dalla celebre «Eine Kleine» mozartiana) condotta dal suo direttore naturale, Giovanni Minafra. Ma si trova all’improvviso senza di lui, chiamato via da un’incombenza telefonica. Il violino di spalla, «sconcertato», chiede al pubblico se ci sia in sala qualcuno in grado di prenderne il posto: ed ecco che Tullo - autoproponendosi all’istante - inizia il suo tour de force sul podio, in situazioni che diventano sempre più esilaranti e scoppiettanti.
Con la bacchetta che diventa una sigaretta, o un coltello per tagliarsi le vene (proprio quando tocca all’esecuzione di un borioso Vivaldi), conferendo all’oggetto una funzione sempre nuova. Così come è la stessa orchestra a reagire ogni volta diversamente, quando al posto della bacchetta spunta un cucchiaio, un tergicristallo, addirittura un trapano. O quando un ombrello fa scattare la «Singin’ In the Rain» di turno, per non parlare dell’esilarante racconto della «suocera» del nostro, che diventerà il leitmotiv sonoro e «urticante» della serata.
Tra numerosi equivoci o tentativi di conduzione musicale, in cui persino i suoni prodotti dai computer che usiamo quotidianamente esprimono sentimenti di ogni genere, lo «scontro» fra direttore e orchestra (e il suo immarcescibile ispettore) diventa una miccia da accendere a ogni istante, per sorridere e lasciarsi andare, in questo inno alla libertà teatrale e musicale, in cui finalmente il pubblico e i musicisti stessi ridono tutti insieme all’unisono. Perché si può essere professori d’orchestra di talento in qualsiasi arcata e frase musicale, ma si può anche scherzare sulle idiosincrasie del proprio mondo: perché, in fondo, sarà sempre e solo una risata a salvarci.
Non mancano numeri a effetto, come il «typewriter» di Jerry Lewis, messo a confronto tra una Lettera 22 vintage e uno smartphone odierno, accenni di tip tap e una serie di brani musicali (Vivaldi, Strauss, Brahms ed altro ancora) che catturano l’empatia del pubblico, coinvolto in più di un’occasione da Tullo. Al termine c’è anche una tenzone tra il cialtrone e il vero direttore, con Minafra richiamato sul palco in un duello fra bacchette, senza vincitori né vinti. A trionfare, semmai, è la leggerezza e il divertimento, in uno spettacolo che sa smitizzare il mondo «classico» senza deformarlo. Anzi, lo impreziosisce ancora di più, provando a demolirne i codici. Ed è questa la sensazione che resta al termine, con i lunghi applausi - sinceri e del tutto «sconcertati» - che omaggiano tutti i protagonisti.