«La passione non ottiene mai il perdono». Pier Paolo Pasolini fu ucciso per mano del «ragazzo di vita» Pino Pelosi nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975 all’idroscalo di Ostia. Poeta, polemista, regista, aveva 53 anni. Isolato, non incompreso, Pasolini si faceva capire benissimo e perciò divideva, scompigliava certezze ideologiche e appartenenze politiche ancora cementificate nel muro di Berlino, lungi dal crollare in un altro novembre (1989). Dopo la morte violenta, la sua figura ha subìto dapprima una rimozione feroce e in seguito una paradossale edulcorazione verso l’icona pop o il santino buono per ogni «evento». Da qualche anno Pasolini risulta gradito persino alla destra che lo odiò, perché essa tardivamente legge nella sua «nostalgia» una dimensione conservatrice e comunitaria, anti-liberal. Non che a sinistra il Nostro fosse a suo agio, fin da quando la Federazione comunista di Pordenone lo espulse nel 1949 per «indegnità morale» attribuita alla sua omosessualità e «alle deleterie influenze dei vari Gide e Sartre». Pier Paolo aveva perso il fratello minore Guido, partigiano trucidato dai «rossi» nell’eccidio di Porzûs del 1945, e fu laconico nella risposta ai burocrati del Pci: «Malgrado voi, resto e resterò comunista».
Nato a Bologna il 5 marzo 1922, visse durante la guerra a Casarsa della Delizia con Guido e con l’amatissima madre Susanna Colussi, che era originaria della cittadina friulana: un periodo raccontato ora nel documentario In un futuro aprile - Il giovane Pasolini di Francesco Costabile e Federico Savonitto (stasera alle 22,15 su Sky Arte). Eppure, a petto della lenta «assimilazione» nella cultura italiana, egli fu e permane un corpo estraneo, sidereo, una luce aliena o una «forza del passato». Pasolini è irriducibile al suo tempo e al nostro di cui presagì l’omologazione, la melliflua dittatura dei mass media e l’oblio del «paese di temporali e di primule» da lui amatissimo.
È l’autore eretico, corsaro o luterano, straniero talora finanche a se stesso, che riluce nel Pasolini dell’italo-americano Abel Ferrara, protagonista Willem Dafoe (2014). Il diritto allo scandalo rivendicato nell’opera di Ferrara corrisponde alla frase evangelica Necesse est enim ut veniant scandala (Matteo 18, 7), cioè all’opportunità di creare un inciampo nelle situazioni stagnanti, caro all’autore del Vangelo secondo Matteo girato nei Sassi di Matera e nel Barese (1964). Pasolini tenacemente assunse posizioni controcorrente sulla scuola, l’omologazione televisiva e la fine della civiltà contadina, il ‘68 dei «figli di papà», il Palazzo e la Democrazia cristiana per cui invocò il «processo»... L’approccio era tanto metaforico quanto concreto, come se davvero egli guardasse alla «Terra vista dalla Luna», titolo di un suo breve film. Ed è la prospettiva «celeste» che Ferrara radicalizza nelle battute finali del film, prima della tragedia scandita da Una voce poco fa di Rossini cantata da Maria Callas. Pasolini è a terra, colpito, umiliato, sanguinante. Quando alza il capo nell’ultimo gesto vitale somiglia al Cristo di Dafoe nel film di Scorsese del 1988, mentre la cinepresa si innalza come nel celebre finale di Mamma Roma ispirato al Cristo morto di Andrea Mantegna.
In quella notte di quarantacinque anni fa l’Italia diventò un altro paese, forse un altro mondo: più povero di voce critica, talora quasi afono. Scrisse Pasolini: «E poiché il mondo non è più necessario a me, io non sono più necessario». E che dire di questo aforisma? «Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia».