«Neomelodico? È una parola bella, significa “nuova melodia”, ma a volte viene usata per “ghettizzare” gli artisti. Io mi sono sempre ritenuto un cantautore italiano con la fortuna di essere nato a Napoli. E anzi, il Sud lo sento tutto come casa mia, specialmente la Puglia: è per questo che vi ospito tutti allo Stadio San Nicola, il 23 giugno, per cantare insieme a me». L’invito arriva direttamente da Gigi D’Alessio, che ieri pomeriggio ha visitato la redazione della “Gazzetta”, «che qui è un po’ come San Pietro», questo il suo commento. Allo stadio di Bari non torna da vent’anni: «Per me è come andare a trovare i parenti - scherza - poi il pubblico di questa terra è particolarmente entusiasta».
Un live di Gigi D’Alessio richiama sempre una grande platea, che legame sente con la Puglia?
«Sono molto amico di Antonio Decaro: quando dieci anni fa scelsi Bari per il Capodanno di Mediaset lo chiamai per fargli la proposta e mi rispose: “Hai carta bianca”. In quell’occasione raccogliemmo fondi per piantare alberi e costruire alloggi per i genitori dei bambini oncologici. Sono molto orgoglioso di quell’iniziativa, perché tutto il Sud lo sento casa: ogni regione è una stanza, e il pubblico non viene a vedere il concerto, lo costruisce insieme a me. A volte penso che anch’io dovrei pagare il biglietto».
Volendo sbirciare dietro le quinte del tour (tutte le date nel box a destra), come si struttura tecnicamente uno show del genere?
«Intanto cerco sempre di dare lavoro a maestranze del posto, io per primo sto bene quando riesco a donare qualcosa, e saranno impegnate tra le 2000 e le 2300 persone. Verranno a trovarmi amici e ospiti che ancora non svelo. E per la scaletta sono arrivato a una rosa di 60 canzoni: mediamente ne canto 50 a sera, ma credo continueranno a crescere. Raccontare trentatré anni di carriera è complicato, poi io sono un artista bilingue, canto in italiano e in napoletano, devo bilanciare i due repertori».
È sempre legato al ruolo del compositore che scrive con carta e penna?
«Certo. E sentire un pubblico che intona i tuoi brani è emozionante proprio perché le canzoni nascono mentre sei da solo con un pianoforte, e rimangono solo tue per pochissimo tempo. Una cosa creata dal nulla che ognuno interpreta a modo suo, le stesse parole che io canto per amore vengono dedicate a un figlio, a un amico, a un animale. Poi sì, scrivo ancora con carta e penna, a volte così velocemente perché non abbiamo più l’abitudine di scrivere a mano. Strimpello al piano e inizio a viaggiare, verso un ricordo, un sogno, qualcosa che ho vissuto. Una volta Mogol mi disse: “Nelle tue canzoni ci sono già le parole, devi solo scegliere quelle giuste».
Oggi la musica napoletana trionfa nelle classifiche...
«È stata dura. Al mio primo Sanremo nel 2000 portavo Non dirgli mai, e c’era una sola frase in dialetto. Mi dissero di toglierla, ma in diretta la cantai lo stesso. Vedere che oggi anche chi viene ospite ai miei concerti vuole cantare in napoletano mi fa capire che abbiamo rotto a spallate questo muro. Geolier negli ultimi anni ha fatto tanto, lo considero un figlioccio. In generale rispetto tutta la musica: è arte, se non la capisco il limite è mio».
«Neomelodico» e «nato a Napoli»: sono la stessa cosa?
«Secondo me sì. Poi c’è chi è un po’ più volgare nelle canzoni, chi parla d’amore, chi di temi sociali. Per anni la musica neomelodica è stata considerata di serie C, ma siamo tutti neomelodici, dopo Modugno è tutta “nuova melodia”. Ho letto che Serena Brancale è stata derisa nel suo ambiente jazz perché ascolta la mia musica, ma è tutto un preconcetto. Ho lavorato tanto per superare pregiudizi di questo tipo, ma sento che finalmente il vento sta cambiando e i giovani di oggi sono più liberi».
Si diceva che erano «solo canzonette», voi cantanti avete ancora una funzione sociale?
«E anche di grande responsabilità. I giovani sono come dei file vergini, vuoti, se passiamo brutti messaggi seminiamo male, i messaggi positivi costruiscono una generazione migliore della nostra. Un cantante è più ascoltato di un genitore, di un preside, entriamo nei cuori dei ragazzi senza chiedere permesso. Ed è importante regolamentare l’Intelligenza Artificiale per il futuro, perché molti giovani le canzoni le scrivono ormai così. Una macchina non ha sentimenti, cuore, anima, vogliamo perdere tutto questo? Quando ero giovane, Baglioni mi trasmetteva amore e serenità, mi batteva il cuore, se non diamo delle regole, la gioventù si farà usare dalle macchine. Siamo noi che dobbiamo usarle».
Lei ha un figlio che fa lo stesso mestiere, Lda: che consigli gli dà, visto che questo panorama lo conosce bene?
«Sicuramente non gli rendo la vita facile. Gli ho detto: “Vuoi fare musica? Ok, ma è una cosa seria”. L’obiettivo non deve essere il successo. Deve studiare, fare seriamente, non alzerò mai il telefono per agevolarlo, non è giusto per lui e per chi non ha il padre che fa il cantante. Voglio che sbatta la testa al muro, io sono cresciuto con le delusioni e gli sbagli. E bisognerebbe anche imparare a mettere l’ego da parte, smetterla di scegliere le collaborazioni con la calcolatrice o in base a cosa “conviene”. A molti artisti giovani manca tutto questo pezzo iniziale, la gavetta di chi come me ha cominciato dalle trattorie e dalle prime comunioni».
Trent’anni di repertorio: impossibile scegliere un brano a cui è legato?
«Se mi chiedono qual è il mio più grande successo, non so rispondere. Sono troppe, poi ognuno ci associa un ricordo. Esistono canzoni che costruiscono le carriere dei cantanti, e cantanti che fanno fare successo alle canzoni. Nel mio caso, non sono identificato con un brano in particolare. Sono semplicemente Gigi D’Alessio».
Un bilancio di una carriera incredibile. Dal 1992 a oggi, c’è ancora un ultimo pensiero prima di salire sul palco, quando dietro le quinte sente la gente acclamare il suo nome?
«Non ho mai avuto paura, il palcoscenico non deve mettere terrore. Ma ci deve essere l’emozione, che sia uno stadio o una stanzetta con poche persone. Il gesto è sempre lo stesso: mi faccio il segno della croce. E ringrazio Dio, che mi dà la possibilità di salire su quel palco e di fare il lavoro più bello del mondo».
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