BARI - Alle prime luci dell’alba la polizia ha dato esecuzione a un’ordinanza applicativa di misure cautelari emessa dal GIP del Tribunale di Bari, su richiesta della Procura - Direzione Distrettuale Antimafia, nei confronti di 43 persone, indagate per aver preso parte ad un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, con l’aggravante del metodo mafioso. La complessa operazione è stata portata a termine nei comuni di Bitonto e Bari, da oltre 300 agenti con il supporto di unità eliportate, cinofili, Reparti Prevenzione Crimine.
Il clan Conte di Bitonto, nel Barese, avrebbe organizzato il traffico di droga come in una «azienda», in cui i vari «adepti» venivano remunerati con stipendi settimanali: dalle 300 alle 500 euro per le vedette, considerata attività a basso rischio ("li beccavano la Polizia e non avevano niente addosso» dicono i sodali nelle intercettazioni); 1.000 euro ai pusher, anche minorenni; 1.500 euro alle guardie armate dislocate sui tetti e al responsabile della piazza che si occupava anche dei rifornimenti. Sono alcuni dei particolari che emergono sull'indagine «Market drugs» della Polizia, che ha portato oggi all’arresto di 43 persone. Tra i destinatari della misura anche il capo clan Domenico Conte, propaggine in provincia del clan mafioso Capriati di Bari. Suo braccio destro Mario D’Elia. L’organizzazione prevedeva anche custodi della droga e del denaro, prevalentemente donne, steccatori, corrieri e referenti per la contabilità. Lo stipendio veniva consegnato ogni venerdì nella base blindata del gruppo criminale in via Pertini, nella zona 167, una delle due piazze di spaccio oltre quella nel centro storico, dove il capo in persona provvedeva a consegnare la retribuzione e, in occasione delle festività natalizie, dava anche bonus in denaro, bottiglie e panettoni. Il giro d’affari era di 30 mila euro al giorno per circa 40 kg di stupefacenti smerciati tra cocaina, hashish, marijuana e amnesia, «un’erba che ti fulmina il cervello» secondo i pusher. I fatti contestati risalgono al periodo 2013-2018. Le indagini della Squadra Mobile, coordinate dai pm della Dda Ettore Cardinali e Marco D’Agostino, sono partite nel periodo più caldo dello scontro armato tra i clan Conte e Cipriano che culminò, il 30 dicembre 2017, con l’omicidio di Anna Rosa Tarantino, uccisa per errore durante uno scontro a fuoco nella città vecchia.
«La realtà evidenziata da questa indagine che ha riguardato queste zone di spaccio massivo a Bitonto, in qualche modo ripropone una immagine che abbiamo visto in altre realtà italiane: sono delle enclave fortificate caratterizzate da sistemi di difesa attiva e passiva che rendono assolutamente difficile intervenire nella flagranza di reato». Lo ha detto il direttore centrale anticrimine della Polizia di Stato, il prefetto Francesco Messina, sui 43 arresti per traffico di droga eseguiti a Bitonto, nel Barese, paragonando la base organizzativa del gruppo criminale Conte, blindata e videosorvegliata, al quartiere napoletano di Scampia, «una situazione fortificata con il capo da casa sua che controlla da remoto ogni tipo di attività - ha spiegato Messina - : aveva una centrale che gli consentiva, attraverso una installazione di telecamere in diverse realtà dei suoi fortini, di controllare non solo le attività dei suoi 'dipendentì ma anche l’attività esterna. Questo sistema di controllo da remoto serviva a rendere inavvicinabile dell’azione di contrato». Per Messina in Puglia c'è una «realtà effervescente dal punto di vista criminale sulla quale il nostro impegno è massimo».
«Troppi giovani sono ancora attratti dal mito fasullo della criminalità organizzata», anche perché su certi territori la mafia agisce come «welfare, garantendo a una serie numerosissima di persone lavoro e assistenza». Questa la chiave di lettura del procuratore della Repubblica di Bari Roberto Rossi e del procuratore aggiunto, coordinatore della Dda, Francesco Giannella, descrivendo il fenomeno criminale accertato dall'inchiesta.
«Dove lo Stato non riesce ad assicurare capillarmente lavoro, assistenza e benessere - ha spiegato Giannella - arriva la mafia, garantendo mantenimento alle famiglie dei detenuti, assistenza legale. Nelle zone ad alta penetrazione criminale il welfare lo fa la mafia, non lo fa lo Stato». E la stessa popolazione «in certi territori evidentemente vede in queste organizzazioni qualcosa di più credibile, di più forte dello Stato - continua - che non viene visto come amico, come alternativa possibile, ma come nemico, invece l’organizzazione criminale come un socio».