Non c’è magia, senza l’idea di prepararle. Prima di gustarle, con le mani ancora in pasta, le pettole (o pittule) di Santa Cecilia scaldano il cuore perché aprono le porte al Natale. La tradizione di origine tarantina, diffusa un po’ in tutta la Puglia, è molto sentita ed è celebrata con i suoi riti speciali, come quello di riunirsi in famiglia per mangiare, rigorosamente calde, le soffici palline di pasta lievitata fritta. Ricoperte di zucchero o salate, sulle pettole s’affollano le leggende, fra tutte quella che riconduce la nascita delle iconiche frittelle a una massaia di Taranto che, proprio nel giorno di Santa Cecilia, preparava l’impasto per il pane. La donna, attratta dalla musica degli zampognari, uscì di casa e li seguì per i vicoli della città ionica.
Rientrata alla base, s’accorse che l’impasto era troppo lievitato e, per non buttarlo, la casalinga lo frisse a cucchiaiate. La ricetta piacque talmente tanto ai suoi figli, che battezzarono le piccole frittelle con il nome di “pettole”, probabilmente in riferimento alla “pitta”, focaccia tipica del posto. Una storia dal sapore romantico, che però non troverebbe riscontro nelle ricostruzioni storiche e linguistiche: rifacendosi all’etimologia della parola, infatti, le origini sarebbero latine. Secondo alcuni glottologi, la radice del termine risalirebbe addirittura al siriaco, un’antica lingua orientale, forse anche all’indeuropeo. Eppure, il tema della “sbadataggine” torna anche nella leggenda cristiana, secondo la quale Santa Elisabetta, distratta da una lunga chiacchierata con la Madonna, dimenticò l’impasto del pane settimanale, che così crebbe a dismisura. Per recuperarlo non le restò che tuffare i pezzi di pasta nell’olio bollente. Consumate in Puglia, Lucania e in larga parte della Campania, al netto delle testimonianze più o meno attendibili, c’è da dire che per i tarantini, ma per tutti i pugliesi più in generale, le pettole segnano veramente l’inizio delle celebrazioni natalizie. L’odore di fritto, il 22 novembre, pervade le strade di Taranto.
È nella città dei due Mari, infatti, che il rito è più fortemente sentito. Dal Salento al Gargano - dove diffusamente vengono proposti i “Cuscini di Gesù Bambino”, dolcetti tipici di pasta frolla ripieni di una crema a base di ceci passati, cioccolato fondente e liquore - la palline di pasta fritta rappresentano una delle più importanti tradizioni della cucina festiva pugliese.
Ogni famiglia custodisce gelosamente la sua ricetta perfetta, quella tramandata dalle mamme e dalle nonne, e ogni paese ha il suo nome per identificare le amate frittelle: “pittula”, “pittola”, “pettula”, “pettele”, ma anche “pettuli” (nel brindisino), popizze (nel barese), “zeppole” fin su in Irpinia, “scorpelle” a San Severo, “pettl” a Matera. In definitiva, può variare il nome, sicuramente anche la ricetta (frequente è l’aggiunta di ingredienti come le alici sott’olio o il pomodoro con basilico e pecorino), ma una cosa è certa: nel giorno di Santa Cecilia le pettole non possono mancare sulle tavole dei pugliesi.
Curioso che in alcune località della regione la data fissata per la loro preparazione ricada sul 7 dicembre, come nel brindisino, oppure proprio l’8 dicembre, come a Lizzano, dove c’è cun proverbio che recita così: “Ti la Mmaculata la prima frizzulata, ti la Cannilora l’ultima frizzola”, “nel giorno dell’Immacolata la prima preparazione di pettole, nel giorno della Candelora, l’ultima”. In molti comuni del Salento, è usanza preparare le “pittule” addirittura nel giorno di San Martino, l’11 novembre: le si accompagnano al vino novello e alle carni alla brace, come cavallo e maiale. A Gallipoli, le pittule fanno capolino sulle tavole imbandite a festa già dal 15 ottobre, giorno in cui si festeggia Santa Teresa D’Avila, che introduce nella perla dello Ionio il periodo festivo. Viva le pizzelle fritte, vuote o ripiene che siano, sempre profumate e romantiche, perché quando arrivano, sì, il Natale è davvero alle porte.