TARANTO - Il processo «Ambiente svenduto» sulle emissioni velenose dell’ex Ilva non può celebrarsi a Taranto. È quanto sostengono i difensori dei principali imputati nel maxi processo che il 31 maggio 2021 portò a 26 condanne nei confronti della famiglia Riva, ex proprietaria della fabbrica, dei dirigenti e di alcuni esponenti della politica locale e regionale. La Corte d’assise di Taranto al termine del processo di primo grado aveva decretato pene per oltre 280 anni di carcere: un verdetto più basso rispetto alle richieste della Procura ionica che aveva chiesto 35 condanne per quasi 4 secoli di galera. La Corte, presieduta dal giudice Stefani D’Errico e a latere Fulvia Misserini, aveva accolto sostanzialmente gran parte delle richieste pur ritenendo che alcune accuse fossero infondate, coperte da prescrizione oppure quantificando una condanna più bassa rispetto a quella dalla accusa. Dopo il deposito delle motivazioni, tutti gli imputati, condannati e non, hanno depositato il ricorso in appello contro la decisione di primo grado per chiedere l’annullamento della sentenza.
La mole gigantesca di atti, tutti in possesso della Gazzetta, consente di leggere la versione fornita dagli imputati dopo le condanne: documenti che pubblicheremo nei prossimi giorni a partire oggi dal ricorso firmato dalla difesa di Fabio Riva, condannato a 22 anni di carcere. Nelle 1985 pagine che compongono l’atto, l’avvocato Luca Perrone, ha sostenuto che la sentenza di primo grado «ha operato una ricostruzione della vicenda Ilva in nulla condivisibile, se non surreale» che secondo il professionista tarantino ha un filo rosso riassumibile nell’accusa mossa a Riva: «non hai fatto nulla, se hai fatto qualcosa lo hai comunque realizzato in ritardo e con una finalità di produzione e di profitto e non già di tutela della salute umana e dell’ambiente».
L’avvocato ha inoltre ricordato il procedimento penale che ha visto Fabio Riva imputato dinanzi al tribunale di Milano in cui per l’imputato è assolto nei diversi gradi di giudizio: in quell’occasione, ha sottolineato la difesa, «sono stati valutati i comportamenti non solo del Rag. Fabio Riva, ma della intera gestione privata dello stabilimento Ilva di Taranto, riconoscendo la cruciale rilevanza degli ingenti investimenti operati per migliorare gli impianti, che, in questa sede invece, ancora oggi risultano ostinatamente negati o derubricati quanto ad importanza, rilevanza e, soprattutto, finalità».
Ma tra le diverse cose contestate, spicca la nuova richiesta di trasferire il processo in un’altra sede. Una istanza già avanzata negli anni scorsi e rigettata dalla magistratura ionica. La tesi della difesa è che i giudici di Taranto, anche quelli togati e popolari che hanno emesso la sentenza, sono da considerare come «parti offese» cioè vittime dello stesso reato che sono stati chiamati a giudicare. La difesa ha evidenziato come molti di loro vivano negli stessi quartieri in cui risiedono numerose vittime che in primo grado hanno ottenuto il risarcimento: questo, secondo la difesa, dimostra come i giudici siano da considerare come soggetti danneggiati dalle emissioni dello stabilimento siderurgico.
La difesa ha inoltre citato tre casi di magistrati onorari che si erano costituiti nel processo «ambiente svenduto»: uno di loro ha ritirato la richiesta di risarcimento, ma due invece sono andati avanti. Quando le difese avevano sollevato, nel 2016, questa situazione, la Corte aveva rigettato la richiesta di trasferire il processo offrendo spiegazioni per le due vicende. In un caso aveva spiegato l’istanza della difesa era irrilevante poiché la domanda di risarcimento era stata presentata nel 2016 e il magistrato aveva cessato il suo incarico onorario nel 2015, mentre per il secondo caso era irrilevante poiché l’uomo aveva terminato il suo ruolo nel 2005. Una tesi che non ha convinto la difesa di Fabio Riva e sui sarà chiamata a esprimersi la corte d’assise d’appello.