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Taranto, ex Ilva, Riva in appello, «Wind days? I danni sono quasi inesistenti»

 
Francesco Casula

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Francesco Casula

Taranto, ex Ilva, Riva in appello: «Wind days?  I danni  sono quasi inesistenti»

Emissioni di polveri nocive, in primo grado il giudice, che ha disposto un risarcimento di 12 milioni, ribadisce: la città trasformata in una capitale della diossina

Domenica 03 Settembre 2023, 12:58

13:01

TARANTO - I wind days hanno una rilevanza dannosa sulla popolazione tarantina «quasi inesistente». È quanto sostiene l'avvocato Berardino Iacobucci, difensore di Fabio Riva, ex proprietario dell’Ilva di Taranto, e dell'ex direttore di stabilimento Luigi Capogrosso, nel ricorso contro la condanna in sede civile, con cui a giugno 2022, il giudice Raffaele Viglione imponeva ai due di risarcire per oltre 12 milioni di euro il Comune di Taranto per i danni causati alla città dalle emissioni di polveri dello stabilimento tra il 1995 e il 2014.

Nella sua sentenza il magistrato aveva disposto che Capogrosso e Fabio Riva, quest’ultimo nella qualità di unico erede del padre Emilio contro il quale era stata avviata l’azione risarcitoria prima della sua scomparsa nel 2014, versassero al Comune oltre 3 milioni e 200mila euro come risarcimento dei danni materiali subiti dal patrimonio immobiliare comunale nei quartieri Città Vecchia e Paolo VI, oltre 662mila euro per i danni causati alle strutture scolastiche dei due quartieri, 189mila euro per le spese del cimitero di San Brunone situato al quartiere Tamburi a pochi metri dalle ciminiere, e soprattutto, la somma di 8 milioni di euro come risarcimento per il danno all’immagine, alla reputazione e all’identità storica e culturale patito dalla città di Taranto. Il giudizio civile era nato dopo la condanna definitiva di Emilio Riva e Capogrosso in un processo penale dei primi anni 2000: nel procedimento, poi, erano entrate anche le maxi perizie disposte dal gip Patrizia Todisco che nel 2012 portarono al sequestro dell’area a caldo e al processo «ambiente svenduto» che a maggio 2021 si è concluso in primo grado con numerose condanne tra cui 22 anni di reclusione a Fabio Riva, 20 al fratello Nicola e 21 anni a Capogrosso.


Nel suo ricorso alla Corte d’appello, però, l’avvocato Iacobucci ha chiesto l’annullamento della sentenza sostenendo tra le altre cose che «il richiamo ai wind days nei quali le polveri di minerale si disperdono in alcune zone rivela che si sia fatta di tutta l’erba un fascio senza considerare che quel fenomeno ha una rilevanza dannosa quasi inesistente tanto da essere stato giudicato come ipotesi contravvenzionale». Un punto sul quale, l’avvocato Massimo Moretti che assistito l’Ente ionico nel primo grado di giudizio e ora si appresta ad affrontare il processo d’appello, ha scritto che proprio quelle giornate in cui il vento soffia dai parchi minerali verso la città «costringono i cittadini ad una attività di spazzamento dei propri balconi e delle proprie finestre superiore al normale»: l’avvocato Moretti ha inoltre aggiunto che nonostante la difesa di Riva e Capogrosso sostenga che quei venti polverosi «non costituiscono alcun pericolo per la cittadinanza», nella realtà «ci sono invece numerose ordinanze comunali e provvedimenti della Asl che affermano, documentalmente, il contrario, addirittura imponendo prescrizioni agli abitanti (come la chiusura delle scuole) che incidono sulla qualità di vita (e di futuro) degli stessi». Nel 2012 gli esperti della procura certificarono che ogni anno oltre 700 tonnellate di polveri finivano sulla città per l’opera del vento: anche per questo l’Autorizzazione integrata ambientale riesaminata poco dopo il sequestro aveva ordinato la copertura dei parchi. Una misura che tuttavia oggi non è sufficiente a eliminare il problema dello spolverio sulla città.

Il legale degli ex vertici dell’Ilva, inoltre, si è opposto anche al risarcimento per i danni di immagine arrecati dalle emissioni della fabbrica al territorio ionico. «I racconti, i numeri, le scene di questo disastro ambientale – è scritto nella sentenza del giudice Viglione – hanno gettato nell’oblio dell’immaginario collettivo ogni legame identitario della città al mare e al proprio passato: la storia gloriosa e millenaria di Taranto, che l’aveva vista “capitale della Magna Grecia” tra le più antiche, floride e potenti colonie fondate nell’Italia meridionale e nella Sicilia orientale, è stata soppiantata dalla sua storia recente, una cronaca nera fatta di immagini terrorizzanti e record percentuali indesiderati». Insomma anche secondo il giudice Viglione «la percezione di un territorio tossico e contaminato, finanche nei prodotti alimentari che offre, foriero di danni alla salute e di pericoli per la vita umana, pronto al coprifuoco e soggetto a tempeste di polveri di minerali nei giorni più ventosi di maestrale, incarna la massima lesione possibile dell’immagine di una città trasformata in “capitale della diossina”, un luogo ove il valore stesso dell’esistenza umana appare ridimensionato ed esposto a rischi altrove inaccettabili».

Insomma della storia e delle bellezze di Taranto, dopo il racconto del disastro generato dalle emissioni dell’ex Ilva, «non rimangono che brandelli». E infine il magistrato aveva spiegato che la somma di 8 milioni di euro, come risarcimento per lo sfregio all’immagine di Taranto, era giustificata dall’offesa «arrecata alla reputazione, all’identità storico-culturale ed economica, al cuore della vocazione abitativa e turistica del capoluogo ionico» travolto «in modo difficilmente reversibile, in quasi tutti i campi e gli aspetti della vita in cui possa esprimersi la sua personalità di ente di natura pubblica, rappresentativo di un territorio e di una collettività di circa 200 mila abitanti». Per la difesa, invece, «difettano i presupposti per ritenere che un danno all’immagine ci sia stato e difettano i presupposti per affermare che anche se ci fosse stato sarebbe stato causato dai reati di cui ai capi di imputazione e non già dalla speculativa risonanza mediatica». La responsabilità, insomma, è del circo mediatico, non delle emissioni.

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