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Mafia, estorsioni e droga: a Taranto 300 anni di carcere ai Pascali

 
Francesco Casula

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Francesco Casula

Mafia, estorsioni e droga: a Taranto 300 anni di carcere ai Pascali

Sono 35 le condanne inflitte ad affiliati e a uomini “vicini” al clan di Paolo VI

Giovedì 29 Giugno 2023, 13:21

TARANTO - Sono 35 le condanne per tre secoli di carcere e 2 le assoluzioni inflitte al termine del primo grado di giudizio nei confronti degli imputati che dopo il coinvolgimento nel blitz antimafia denominato «Summa» hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato. Il gip di Lecce Silvia Saracino ha accolto in pieno le richieste avanzate dal pubblico ministero Milto De Nozza della Direzione distrettuale Antimafia di Lecce che ha coordinato le indagini della Squadra Mobile sulle attività illecite della famiglia Pascali: il giudice, infatti, ha innanzitutto confermato che il clan è un'associazione di stampo mafioso. A capo del clan ci sarebbero i fratelli Nico e Giuseppe Pascali, condannati rispettivamente a 20 e 17 anni di carcere. L'associazione mafiosa è stata inoltre confermata come partecipi del clan ad altri 12 imputati: il giudice ha infatti emesso una condanna a a 18 anni e 8 mesi per Luigi Agrosì, a 13 anni per Antonella Bevilacqua, a 11 anni per Francesco Tambone, a 10 anni per Eufrasia Quero e Luca Pascali, a 9 anni e 4 mesi per Domenico Iacca, a 6 anni e 8 mesi per Giuseppe Petrelli, a 8 anni e 4 mesi per Lucky La Gioia, a 8 anni per 8 anni per Salvatore Labriola e Giuseppe Portacci, a 8 anni e 2 mesi per Ezio Verardi e infine a 7 anni per Francesco Sangermano.

A Nico Pascali, Bevilacqua, Agrosì e Davide Mastrovito (condannato a 10 anni di reclusione) è contestato anche il reato di aver costituito in seno al clan un gruppo che si dedicava al traffico di stupefacenti. Ma le indagini hanno portato alla luce anche un'altra associazione che trafficava stupefacenti composta da Massimo Sedete condannato a 20 anni, Antonio Maiorino condannato a 14 anni, Leonardo Durelli e Patrizio Sedete entrambi condannati a a 12 anni e 4 mesi e infine Christian Chiafele e Mirko Guarino che dovranno scontare 9 anni di carcere.

La sentenza ha inoltre emesso una serie di pene nei confronti di altri imputati: condanna a 9 anni e 4 mesi Antonio Greco, a 7 anni e 4 mesi Emanuele Capuano, a 7 anni per Giuseppe Palumbo, a 6 anni per Antonio Bleve e Francesco Presta, a 4 anni e 4 mesi Cosimo Damiano Caforio, a 3 anni e 8 mesi Gianluca Ciccolella, a 2 anni e 8 mesi per Vincenza Ricatti, a 2 anni e 4 mesi a Giovanni Albertini, Carlo Giannetti, Simone Loperfido, Cosimo Sebastio e Robin Giannotta e infine a 1 anno e 8 mesi Francesco Ingenito. Assolti invece Carmelo Pascali e Guarino Consiglia, difesi dagli avvocati Luigi Esposito e Domenico Augusto Ruggieri.

Il clan Pascali, seocndo le indagini, avrebbe portato a «ulteriore evoluzione il metodo mafioso» avvalendosi anche di una nuova forma di intimidazione cosiddetta «silente e simbiotica»: un dettaglio che il giudice ha confermato certificando che sostanzialmente bastava la spendita del nome e non la violenza per sottomettere imprenditori e commerciati a pagare il pizzo.

Il sodalizio vantava, però, oltre a un ordine «fortemente gerarchizzato contraddistinto da distinzione di ruoli, rispetto dei capi e imposizione di rigide regole interne finalizzate a preservare “il buon nome” del clan» anche un atteggiamento estremamente feroce nei confronti dei clan rivali: «significativo – si legge negli atti di inchiesta - l’episodio in cui Pascali Giuseppe, all’interno dell’istituto penitenziario di Foggia, dopo aver aggredito violentemente Simonetti Gianluca, rappresentante del clan rivale facente capo a Diodato Gaetano, lo costringeva, sotto intimidazione, a scrivere una lettera al Diodato stesso al fine di rappresentare la sua volontà di dissociarsi dal quel gruppo criminale». Ma non solo. Il boss Giuseppe pascali avrebbe anche minacciato di morte nomi di spicco del panorama criminale tarantino come Gregorio Cicala,Walter de Cataldis e Cosimo Cianciaruso “quando – scrive il pm De Nozza – non venivano siglati reciproci accordi” come accaduto con diverse consorterie mafiose di stampo camorristico. Secondo quanto ricostruito dai poliziotti guidati all'epoca dal vice questore Fulvio Manco, i fratelli Nico e Giuseppe Pascali erano i capi e promotori del clan, mentre le donne come Bevilacqua e Quero avevano il compito di recapitare all'esterno del carcere messaggi contenenti ordini e direttive dei boss. Luca Pascali, invece, si occupava oltre dei messaggi dei capiclan anche di riscuotere il denaro delle estorsioni e di dirimere i contrasti interni al gruppo. Tambone era invece una sorta di luogotenente dei fratelli Pascali che era a capo della batteria di affiliati impegnati nella gestione del racket delle estorsioni che erano riscossi materialmente da Iacca, Petrelli, La Gioia, Sangermano, Labriola, Portacci e Verardi. Mentre infine ad Agrosì si occupava dell'approvvigionamento e smistamento della droga.

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