TARANTO - Chiesa di Maria Maddalena, di san Lazzaro, della Natività di Maria. Le «titolazioni» di quella che oggi è nota come chiesa del «Carmine» sono state diverse. Nonostante le ricerche e gli studi, nessuno è riuscito finora a individuare con certezza se e quando l’edificio religioso dell’attuale via D’Aquino sia stato intitolato alla Vergine del Carmelo. Ed è anche per questo che gli studiosi, per ora, concordano sull’ipotesi che l’attuale denominazione derivi non da un atto istituzionale, ma dalla semplice presenza della comunità carmelitana in quella chiesa a partire dal 1577.
Una presenza evidentemente significativa dato che nel 1675 i carmelitani istituirono in quella chiesa di Santa Maria «extra moenia», situata cioè fuori dalle mura della città, una confraternita dedicata alla Vergine del Carmelo. Un sodalizio che raccolse da subito il favore dei fedeli e riuscì a sopravvivere, secoli dopo, anche alla partenza dei frati dalla città. La congrega creò col popolo legami così forti che nel 1837, Ferdinando II donò addirittura l’edificio religioso al sodalizio del Carmine. E quando un secolo dopo, nel 1937, fu costruita la nuova facciata dell’edificio, sulla sommità comparve la frase latina «Beatae Virgini a Carmelo dicatum».
Lo storico Giovanni Schinaia, autore di una splendida pubblicazione intitolata «I Misteri di Taranto. Simboli e Simbologia», alla Gazzetta ha spiegato che proprio in quelle parole esiste la conferma a questa ipotesi: «Tradotto letteralmente – ha spiegato Schinaia – significa “Dedicata alla Beata Vergine dal Carmelo”. Indica, quindi, che fu proprio la comunità carmelitana, in quell’occasione proprio al confraternita, a dedicare la chiesa alla Vergine». Dopo la donazione della chiesa, però, alla congrega giunse una seconda importante donazione nel 1765: don Francescantonio Calò cedette ai confratelli del Carmine, che per «sommo zelo e divozione» si erano distinti durante le funzioni penitenziali, le statue di Gesù Morto e dell’Addolorata, i primi simulacri della processione oggi conosciuta come «Sacri Misteri». Don Francescantonio Calò, però, impose delle clausole: la confraternita avrebbe dovuto provvedere a proprie spese all’organizzazione della processione del Venerdì Santo, donare in quell’occasione un cero lavorato di due libbre al discendente della famiglia Calò e riservare alla famiglia un posto d’onore, affinché si ricordasse negli anni il dono della nobile famiglia al pio sodalizio.
Don Francesco Antonio Calò, tuttavia, non ebbe figli e quindi parte di quanto stipulato non ebbe seguito. Sopravvisse invece, simbolicamente, la partecipazione della famiglia Calò alla processione, con la presenza dei «cavalieri di Gesù Morto» che durante la processione reggono i «lacci» della bara. Col passare dei decenni, la processione del Venerdì Santo crebbe fino all’attuale formazione che conta otto simulacri: oltre Gesù Morto e l’Addolorata che chiudono il corteo, sono stati aggiunti altri momenti che ricordano i «Misteri dolorosi» del Rosario e da cui proviene appunto il nome del corteo: Cristo all’orto, La Colonna, Ecce Homo, La Cascata, il Crocifisso e la «Sacra Sindone». Per anni, tra i confratelli, è serpeggiato tra i confratelli e i tarantini, un falso mito: se la processione a causa della pioggia avesse trascorso una notte intera in un’altra chiesa, le statue sarebbero rimaste per sempre in quella chiesa. Un mito, appunto: l’atto di donazione stabilisce che nessuno potrà mai portar via i Misteri ai confratelli del Carmine. Mai.