Franz Kafka resta un oceano inesplorato. Ancora oggi ci sentiamo dispersi di fronte all’immensità di una scrittura luminosamente cupa e abissale. A cento anni dalla morte, avvertiamo la impossibilità di evitare il naufragio e disperderci in quell’oceano, il suo: l’«Oceano Kafka».
L’atmosfera delle cose kafkiane è sempre un po’ invernale, nebbiosa. Ha quell’eterno sapore di pilsner bevuta in taverna. Eppure, a Franz Kafka sarebbe piaciuto scendere a Sud, in qualche posto esotico. «Era la sua speranza quando fu assunto alle Generali che invece lo spedirono a Trieste. Un cambiamento minimo e deludente». E allora nel Mezzogiorno lo porta lui attraverso il tour di presentazione - con molte tappe pugliesi - del volume Kafka (La nave di Teseo, pp. 113, euro 16). «Andiamo in vacanza insieme», scherza Mauro Covacich, scrittore triestino classe 1965, che con l’autore de Il castello e Il processo, ha ingaggiato nel libro un vero corpo o corpo. Da scrittore a scrittore. O forse da pugile a scrittore perché tutto inizia con un pugno sul cranio.
Covacich, le ha fatto male?
«Sì certo (ride, ndr), a me come a tanti. È proprio Kafka a scrivere in una lettera che il libro deve svegliarci come un pugno sul cranio, appunto, dev’essere l’ascia che spacca il mare ghiacciato dentro di noi. È questa l’utilità della letteratura, la risposta alla famosa domanda sul perché leggere».
Attenzione alle facili infatuazioni, però. A 100 anni dalla morte dello scrittore è scoppiata la Kafka-mania. Qual è l’errore da non commettere quando ci si accosta alle sue opere?
«Aspettarsi per forza che tutto sia simbolico, allegorico, surreale. Arrivarci, insomma, con pregiudizi kafkiani»...